America anni Venti: sterminateli senza pietà

  • Quella che state per leggere è la versione expanded della recensione che ho scritto per CineCriticaweb, la rivista del Sindacato Critici Cinematografici Italiani. La versione expanded, poiché compare qui, è proposta nel solito (dis)Sequenze Style, cosa che lì ovviamente non sarebbe stata possibile. Se invece siete stanchi di versioni espanse e ipertrofiche vi consiglio di cercare la versione short&dry sulla rivista del SNCCI; se invece siete stanchi e basta, guardatevi solo il film, ché di Scorsese ahimé non è possibile fare a meno. E non leggete nulla, ché tanto alla fine le recensioni non aggiungono e non tolgono niente al film che s’illudono di commentare.

Scorsese è uno dei pochissimi registi di cui io aspetti l’uscita del film con l’entusiasmo di un ragazzino. Una frenesia quasi erotica che ormai riservo solo per alcuni, non più di quattro o cinque. Lui, Tarantino, Nolan, forse Fincher e Paul Thomas Anderson. Non che per forza siano i miei autori preferiti. Però sono quelli che aspetto come se si trattasse di un evento. Forse anche perché, ignorando negligentemente gli asiatici per ragioni di opportunità in questa stringata sede, sono alcuni dei nomi che ancora permettono una riflessione sul dispositivo cinematografico, sui regimi di sguardo, in una parola, sullo stato delle cose, come diceva Wenders. Se poi Scorsese mi fa un western, cosa che ho sognato facessero anche Kubrick e Welles, pensate un attimo in che attesa io possa vivere. Un western, di questi tempi, per di più griffato, per me, talmente assetato di western che a cinque anni divenni la vera preoccupazione di mia madre quando una mattina di dicembre scoprì che avevo impiccato tutti i miei soldatini all’albero di Natale, solo perché nell’eterno film che costruivo costantemente nella mia mente il presepe era il luogo più realistico che avessi a disposizione per eseguire la condanna.

Ma se io lo bramavo soltanto, Scorsese insegue il western da sempre. Nel suo primo lungometraggio, Chi sta bussando alla mia porta?, realizzato nel 1967, c’è una sequenza poco dopo l’inizio in cui Harvey Keitel parla di western con Zina Bethune, la ragazza con cui è uscito quella sera, dicendo che il western dovrebbe piacere a tutti, perché in questo modo molti problemi sarebbero risolti. Voi parlereste mai di western a una ragazza appena conosciuta? No? ‘No’ perché pensate di essere talmente brillanti da affrontare altri e più interessanti argomenti oppure ‘no’ perché vi preme andare subito al sodo per non vanificare l’effetto del Viagra? E invece in quell’epoca si conquistavano le donne parlando di John Wayne, pensa un po’. Pur amando da sempre visceralmente John Ford, al western Scorsese vi giunge 56 anni dopo, cioé adesso, quando ormai di anni ne ha 81. Tu entri nel cinema, speri di trovare un western girato come se fosse Gangs of New York e invece capita quello che non ti aspetti. Con l’età Scorsese si preoccupa più di cosa raccontare che di come raccontarlo, d’altronde lo ha dichiarato anche durante il Festival di Cannes, e allora quello davanti cui ci si trova, dopo decenni di lavori in perenne movimento, ritmati e visivamente stordenti, è il totale asservimento dello stile alle logiche della storia, una storia insolita, poco nota, tratta da un romanzo di David Grann e preparata per sei lunghi anni. Come Gangs of New York fa riferimento alle poco edificanti origini della nazione, ma le racconta con la stessa liturgica capacità di riflessione di Silence e Kundun. Che Scorsese sia interessato soprattutto a questo e a poco altro è dimostrato anche dal sorprendente finale, quando il film ha una decisa sterzata metanarrativa e il regista compare in un indicativo cameo nel ruolo del regista del radiodramma dedicato alla storia appena narrata dal film, intento a chiosare con il suo commento finale l’intera vicenda. Tra l’altro, un radiodrammma paradossale, perché in quelle poche immagini di cui si compone appare visivamente ricchissimo, quasi più spettacolare di tutto ciò che è stato visto fino a quel momento.

Killers fo the Flower Moon è lungo, inutile girarci intorno. Dura solo tredici minuti in meno dei Canceli del cielo, a cui lo avvicina anche la visione critica di un momento ritenuto epico nella storia della nazione, ma state pur tranquilli che al buon Martin nessuno scasserà il cazzo. Nella comoda sala della prima cintura settentrionale della solita città a vocazione industriale ecc. ecc. in cui l’ho visto, l’ultima mezz’ora è stata caratterizzata da un ronfare sordo di diversi spettatori, tra cui il ciccione pelato che alla fine si è svegliato e ha guardato fingendo indifferenza il resto della sala, che a sua volta lo guardava con ripugnanza, sapendo che sì, il coglione maledetto che russava più forte degli altri era proprio lui.

Di cosa parla questo racconto fiume che bisogna affrontare senza aver mangiato pesante se no si fa la fine dello sprovveduto di cui sopra? Anni Venti, Oklahoma, visto che i membri della tribù degli Osage si sono arricchiti con un colpo di enorme e inaspettato culo con il petrolio esploso dalla terra cui sono confinati, sono uccisi uno dietro l’altro in modo talmente brutale e ripetuto da causare l’intervento dell’FBI. Ci sarebbe materia per farne un film d’azione concitato e spettacolare, tutto ruotante intorno all’investigazione, e invece ci si immerge completamente nel sacrificio quasi rituale di una tribù che ha avuto il torto di essere baciata da una fortuna subito limitata dall’avidità dei bianchi, che non sono altro che criminali occulti ammantati di candore falsamente paternalistico, al punto che da Washington decidono di creare una rete di funzionari finanziari con il preciso compito di poter centellinare le quote di patrimomio che gli Osage possono ritirare dal loro conto in banca. In questa stessa ottica ipocritamente paternalistica, la prova di Robert De Niro è magistrale, in decisa controtendenza rispetto alle ultime interpretazioni, abbastanza deprimenti perché inserite in film stupidi: interpreta un vecchio patriarca dalle espressioni contrite e dall’azione manipolatoria e spietata, un finto amico degli indiani che si muove come la versione cerebrale del Robert Mitchum de La morte corre sul fiume. DiCaprio, invece, pare intrappolato in una recitazione a scatti, preda di tic non sempre motivati e di reazioni talvolta fuori sincrono, pur avendo il ruolo più interessante, quello di un personaggio stretto tra passione, obblighi di devozione e una friabile personalità. In più, fra De Niro e DiCaprio, sul set, sono stati casini. Pur conoscondosi dal 1993, quando girarono insieme Voglia di ricominciare (nella cui scena finale si diedero un fracco di botte), per poi replicare tre anni dopo con La stanza di Marvin, in Killers of the Flower Moon hanno fatto scintille, soprattutto per la smania di DiCaprio di personalizzare le battute, riadattare intere scene, cercare di capire il senso profondo delle singole sequenze per potervi applicare il proprio metodo di improvvisazione. In breve, a causa del tempo che faceva perdere e delle discussioni infinite con cui stemprava Scorsese, De Niro si è talmente irritato che ha smesso di parlargli, sperando che si arrivasse al più presto al termine delle riprese per non vederlo più. Pensandoci, non credo che mi piacerebbe stare sul cazzo a De Niro.

Tornando al film, la regia di Scorsese è quasi ipnotica (come potrebbe testimoniare, scaccolandosi, il ciccione pelato): i movimenti di macchina accompagnano l’incedere dolente dei personaggi; i primissimi piani, soprattutto quelli sulla maschera di progressiva sofferenza di Lily Gladstone, la moglie indiana (e ricca) di DiCaprio, sono superfici in cui lo sguardo si fissa per smarrirsi, cullato da parole caratterizzate sempre da un senso duplice e occulto, espresse in una forma che nasconde una minaccia tesa all’annullamento della persona per assumerne funzioni e prerogative. A fare da collante al tutto, il soffuso accompagnamento musicale di Robbie Robertson, ex membro della Band e quindi già protagonista con Scorsese de L’ultimo valzer, quando la Band si sciolse, e mezzo indiano, perché la madre era una Mohawk. La musica di Robertson ha i toni del dark western, sembra un mantra funebre ossessivo che ambienta e angustia, tanto più se si pensa che quello che si sta ascoltando è il testamento del musicista, morto subito dopo aver ultimato il film, nello scorso agosto. Oltretutto la tessitura della sua chitarra ricorda molto le armonie depresse di un gruppo notevole come i 16 Horsepower, che non si è mai cagato nessuno ma vi assicuro che sarebbero stati l’ideale per una colonna sonora in cui il western si fosse ibridato con il noir più metafisico. Vabbe’, lasciate perdere, qua siamo oltre le frontiere della deriva dei generi, siamo quasi al deliquio.

Scorsese in (quasi) tutto il film pare limitarsi a osservare pazientemente, non ad agire. Ci sono le gang che si danno da fare come i Goodfellas, in più hanno il cappellone Stetson, quello dei cowboy, anche se la casa madre era a Philadelphia, lontano dal West, e non c’è l’ironia che Scorsese di solito riserva agli italiani. Tutto appare più freddo, meno coinvolgente, ma è solo un effetto della fedele, quasi impassibile osservazione. Anche Taxi Driver appariva freddo e privo di ironia ma ti trascinava in un gorgo senza fondo. Di fatto Scorsese tiene a bada il suo stile quasi tutto il tempo, salvo nei momenti in cui il film si anima grazie ai movimenti fulminei della macchina da presa, pronta a schiaffeggiare lo spazio della messa in scena con il suo (altrove) consueto dinamismo oppure a osservare dall’alto, a piombo, da quel punto di vista che gli americani ascrivono a Dio e che dimostra quella onnipotenza dello sguardo a cui Scorsese crede fermamente e che nell’ultima inquadratura di Silence aveva in qualche modo canonizzato. Sono notazioni d’autore, una firma sul prodotto, di chi conosce perfettamente cosa sia il cinema e anche le sofferte contraddizioni su cui è stata edificata la sua nazione. Ancora una volta, parafrasado la sua stessa filmografia, America 1929 (più o meno): sterminateli senza pietà.

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema pur essendo cosciente dell'inutilità.

2 Risposte a “America anni Venti: sterminateli senza pietà”

  1. Visto oggi pomeriggio all’Ambrosio 2 perché la sala grossa era occupata da non so quale evento serale. Tre ore e pussa non avvertite per niente, pubblico attento, senza pelati ronfanti, ma con tre amiche medio-borghesi di merda che in una sala con 40-50 presenze e posti a libero arbitrio si piazzano davanti a me e al mio amico over 80 (dico sul serio), COSTRINGENDOCI ad un velocissimo (qui non dico sul serio: deambulo con bastone e una doppia inclinazione in avanti, accentuata, e sinistra-ovviamente, visto che non ho cambiato bandiera da almeno 55/57 anni- poeticamente chiamata sindrome di Pisa) cambio di posto tuttalbuio e cristonando come faccio spesso ultimamente. Dunque, Il film di Scorsese è come dice gpf. Io aggiungo solo che meriterebbe un’altra visione per coglierne la sottigliezza, che Martin gira il 2° western della sua vita (1929 era il primo, un simil-western ambientato in epoca più tarda rispetto ai western classico), con attori in formissima (DeNiro), con autentiche rivelazioni (Lily Gladstone) e una pletora di veterani o quasi (Fraser grasso da far paura, John Lithgow, Barry Corbin, e poi… riconosceteveli da soli, dai!!!!) e una gran voglia di documentare come SM. $$$$si ritorcesse sempre e cmq contro i Nativi e che non erano solo i suoi antenati italici a metter su giri di denaro sporco: in Oklahoma c’era chi agiva come quei bravi ragazzi di N.Y., di Chicago, di Detroit.. DIXI

    1. Ciao Mario, bentornato!
      Grazie del commento, ma ribadisco: primo western. Tutta la sua filmografia è puntellata dalla passione per il genere, in particolare per John Ford, e spruzzate di western sono spesso dovunque.
      Ma “Boxcar Bertha” è western quanto lo possono essere “Gangster Story” o “Gang” di Robert Altman: c’è vicinanza, c’è continuità tra l’eroe western e il gangster, come ha dimostrato Robert Warshow settant’anni fa*, ma si tratta, pur con le spruzzate di cui sopra, di un gangster movie d’autore ambientato durante la Grande depressione. Godiamoci invece l’unicità di questo frutto tardo e maturo.

      (* in “The immediate experience”)

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