C’era (ancora) una volta a Hollywood

È uscito lo scorso primo luglio e non è un doppione o, meglio, non è un romanzo desunto dal film e totalmente fedele a esso. C’era una volta a Hollywood, pubblicato in Italia da La Nave di Teseo, è l’esordio letterario dell’unico regista, probabilmente, che mi piacerebbe avere come compagno di bevute, Quentin Tarantino (eh, grazie arcà, direte voi ― ma io ho anche detto l’unico, perché non m’interessa la celebrità, m’interessa la brillantezza aneddotica, dal momento che gli uomini sono spesso così tanto noiosi). I primi romanzi dei registi, quando non sono una delusione, generano perlomeno perplessità (penso a Sorrentino, ma anche al per me intoccabile Cimino di Big Jane o anche al Gus Van Sant di Pink, vecchio pallino degli anni giovanili ― ci feci la tesi di laurea, pensate un po’), almeno quanto destano perplessità gli scrittori che passano alla regia (salviamo solo Pasolini, va’, ma solo per l’opera di teorizzazione parallela che ne ha accompagnato il passaggio, non tanto per ciò che ne è scaturito, che continua a non convincermi del tutto stilisticamente. Ah, salviamo anche E Johnny prese il fucile di Dalton Trumbo, peraltro la sua unica esperienza dietro la macchina da presa).

Che cos’è davvero C’era una volta a Hollywood, che si assume come una serie televisiva vista in binge watching e ha lo stesso ritmo dei film di Tarantino (merito anche della traduzione chirurgica del prode Alberto Pezzotta) ma probabilmente non la stessa ricchezza sinestesica (e come potrebbe)? Non è una novelization, si premetteva, non è una propaggine per allungare il brodo: è un progetto parallelo e crossmediale, come direbbero gli esperti di cultura convergente, che si origina dal progetto alla base del film (quasi con lo stesso titolo, se non fosse che nel libro i puntini sospensivi non ci sono), quando Tarantino cercò per cinque anni di scrivere un romanzo prima di arrendersi all’evidenza delle immagini (e menomale, perché C’era una volta… a Hollywood è quel film che ti riconcilia con il cinema dopo mesi e mesi in cui hai annaspato tra film di merda). Scorre sulla stessa linea, il romanzo, ma non compie lo stesso percorso del film, perché amplia, approfondisce, dà voce a chi fa da sfondo (Cliff, che nel film era Brad Pitt e qua non si può certo evitare di immaginarlo con le stesse fattezze), indugia sui rapporti con altri personaggi e specula sul trauma del divo televisivo in decadenza Rick Dalton circa la mancata occasione di girare La grande fuga al posto di Steve McQueen. Prendendoli nel complesso e paragonandone i finali (ma senza svelare quello del libro), il film, in modo non dissimile da ciò che Tarantino fece in Bastardi senza gloria, abbelisce la Storia grazie alla magia del cinema (là fece morire Hitler e i suoi gerarchi nell’incendio, non a caso, di una sala cinematografica; qua bruciò gli hippies della Family salvando Sharon Tate), mentre il romanzo, pur con tutti i momenti di crisi che illustra, è un grande atto di riconoscenza verso i film da parte di chi vi dedica la propria vita. La prospettiva si restringe, passando dall’immenso potere posseduto dalle immagini a un’ottica più personale, intima, ma l’amore per il cinema resta totale e incondizionato.

Posa sconveniente e piedi zozzi per Margot Robbie nei panni di Sharon Tate

Ovviamente, il romanzo e il film hanno due modi diversi e tutt’altro che complementari di proporsi e quindi di darsi al pubblico. C’era una volta… a Hollywood era immediatezza e incanto. Essere colti completamente alla sprovvista dalla battuta di Cliff sul non mostrarsi in lacrime davanti ai messicani aveva il sapore del rigore spiazzante (scusate, ho appena visto Italia – Spagna), così come la magnifica sequenza in cui Margot Robbie/Sharon Tate scorrazza sulla sua Porsche, cullata dalle tonde note di Circle Game nella versione di Buffy Sainte-Marie, prima di approdare nel cinema in cui stanno proiettando Missione compiuta stop. Bacioni Matt Helm, che ha interpretato, vista sullo schermo infonde un’emozione fanciullesca che nel romanzo, mancando lo sguardo rapito dell’attrice, il connubio con la musica, la calda orchestrazione cromatica e la cadenza di un montaggio complice, non può certo essere restituita allo stesso modo. E che dire di quelli che potremmo chiamare Revenge shot, ossia i piani che soddisfano il desiderio di vendetta dello spettatore (non li cercate, me li sono inventati adesso), come il lanciafiamme che brucia l’insostenibile hippy in piscina? Possibile restituirne la natura istantanea sulla pagina scritta? Ovviamente no. Certo, nel libro sarebbe stato possibile ricreare, seppur in altro modo, quell’interscambiabilità tra Rick e Cliff, tra attore e suo stunt double, che caratterizza il film; Shakespeare in quest’ambiguità drammatica ci sguazzava, Tom Stoppard estrapolò dall’Amleto Rosencrantz e Guildenstern e ancora oggi entrambi non hanno ancora capito chi sia l’uno e chi sia l’altro.

Grigliata in casa Dalton nel finale di C’era una volta… a Hollywood

Il romanzo invece punta su altro e il suo unico difetto, se così vogliamo chiamarlo, è che arriva dopo il film ed è quindi inevitabile che ne subisca un condizionamento nelle modalità di lettura e conseguente percezione. Tarantino ha tuttavia il merito di pensare al suo libro non come a una sceneggiatura dettagliata, ma esattamente a come un romanzo dev’essere, non inseguendo le immagini o la loro rievocazione ma cercando di animare l’irrappresentabile, scavando laddove, nel cinema, il concentrarsi sul dettaglio potrebbe invece correre il rischio di sconfinare nel didascalismo.

Ad esempio, ed è una delle cose più interessanti, attraverso i gusti di Cliff si rivelano implicitamente le passioni di Tarantino, ancora di più delle semplici citazioni o dei campionamenti che da sempre infarciscono il suo cinema, i quali invece seguono altre logiche, tardo postmoderne e di bracconaggio autoriale, per rielaborare un concetto ultimamente caro in ambito accademico. Ed è qui che emerge il Tarantino che vorrei con me a sorseggiare una Guinness o una Kilkenny Cream: il cinema hollywoodiano di tutti gli anni Cinquanta era fondamentalmente immaturo e puerile, Alan Ladd e Robert Mitchum erano gli unici due attori che sapessero fumare sullo schermo, Jean-Paul Belmondo in À bout de souffle aveva una cazzo di affascinante faccia da scimmia, Hiroshima mon amour era «una cacata pazzesca» e Antonioni era «un ciarlatano», Kurosawa, almeno fino a Barbarossa (cioè al ’65), colui che gli ha permesso di capire come il regista non fosse solo un tecnico che seguiva una tabella di marcia. E ancora, Bergman era troppo noioso, Fellini andava bene, tranne per quelle «stronzatine alla Charlot che faceva la moglie. Anzi, meglio ancora se la moglie non ci fosse stata proprio» (come dargli torto?), che fosse inoltre innaturale che il ragazzino dei 400 colpi avesse nella sua stanza il ritratto di Balzac e non di un campione dello sport (io avevo il poster di Bettega, ad esempio; se lo avessi avuto di Ugo Foscolo credo che mia madre avrebbe giustamente chiamato un esorcista), che i due protagonisti di Jules e Jim risultassero «due tristi babbei» e «due grandi rompicoglioni» e che i noir di Chabrol non sapessero proprio cosa fosse la suspense (e dire che prima di farli aveva scritto insieme a Rohmer un saggio sull’opera di Hitchcock). Fantastico. Mai visto liquidare in quattro e quattr’otto la sacralità cinefila in questo modo, ad eccezione della celebre sequenza di Io e Annie, sia sempre benedetta.

Al tavolo con me a bere le Guinness di certo non vorrei il cinefilo scassacazzo, anche perché è sempre un altro l’argomento che di solito, pur ripromettendosi di non parlarne, ma facendo proprio sforzi tipo trattenere il respiro come Enzo Maiorca, reggendosi alla sedia con le nocche che diventano blu mentre scuoti la testa ripetendo «No! No! NOO!», alla fine prevale. Non c’è niente da fare, basta un refolo di vento che porta con sé una flebile fragranza e ci si cade sempre. E anche in questo caso Tarantino è la compagnia ideale. Oddio, alcune intere parti che parlano di quello, se non avessero il filtro della visione di Cliff (se Brad Pitt per larga parte del film è a petto nudo, mi pare naturale che parli di quello e non delle contraddizioni geopolitiche internazionali, no?), potrebbero essere tacciate di sessismo, eppure, con buona pace della Murgia, sono davvero irresistibili, come il paio di pagine in cui un maquereau parigino spiega allo stuntman come indurre una donna a lavorare sulla strada rendendola contestualmente felice e soddisfatta.

Tuttavia, il momento più interessante di tutti è quando Tarantino illustra il concetto di autore. A suo modo, per mezzo di un aneddoto rubato all’intimità della coppia Sharon e Roman Polański durante le riprese di Rosemary’s Baby, che per la storia del cinema è anche il momento in cui le grandi produzioni capirono che l’horror poteva avere un mercato più ampio di quello degli adolescenti che pomiciavano nei drive-in. L’oggetto del contendere è l’inquadratura qui sotto

L’inquadratura sbagliata di Rosemary’s Baby

Ruth Gordon, una volta saputo della gravidanza di Mia Farrow, chiama il suo ginecologo per prenderle un appuntamento. Ma Ruth Gordon si vede solo a metà, tagliata in due. Il direttore della fotografia William Fraker (che due anni dopo avrebbe realizzato da regista il western di culto Monty Walsh, con Lee Marvin) aveva piazzato la macchina da presa a metà corridoio per simulare la soggettiva di Mia Farrow e Ruth Gordon si trovava quindi al centro della porta della stanza, come avrebbe fatto la quasi totalità dei registi americani. Ossia, mostrare per raccontare. Polański, invece, puntava ad alterare per stimolare. Tra lo sconcerto generale della troupe, Polański fece spostare la cinepresa fino a tagliare longitudinalmente in due l’anziana attrice, confidando a Sharon «Vedrai». Il «vedrai» si concretizzò alla sneak preview del film, a Glendale, California, quando tutte le persone presenti, ritrovandosi a osservare la nuca di Ruth Gordon intenta a telefonare al suo ginecologo, spostarono contemporaneamente la testa verso destra, nessuna esclusa, per tentare di vederne il volto occultato dallo stipite della porta. Sembra una minchiata, ma Polański aveva manipolato ben seicento spettatori, obbligandoli a muoversi come dei cani di Pavlov in una sorta di coreografia sociale, che in pratica è quello che fa sempre un Autore rispetto a un regista inteso come mero esecutore di una sceneggiatura: concentrando l’attenzione su un aspetto particolare, sull’apparente arbitrarietà di un’inquadratura, costringere il pubblico a dei riflessi condizionati nell’inconsapevolezza (del pubblico stesso) che ciò avvenga davvero.

Un’estate di ventiquattro anni fa, quando ancora parlavo di cinema e frequentavo i festival, discussi un’intera serata sul lungomare di Pesaro con un mio amico critico su The Game di Fincher, del quale lui condannava la volontà manipolatoria ai danni di uno spettatore ignaro e per questo vittima della disonestà del regista; mentre io la magnificavo, desiderando essere vittima proprio perché spettatore, come se le due posizioni fossero inscindibili. Adesso vi risparmio la riflessione sul fatto che ogni tipo di cinema, chi più chi meno, è manipolatorio; estremizzando, lo è anche il cinema documentario, fosse soltanto per la scelta di cosa mostrare e cosa lasciare fuoricampo, ma non è assolutamente possibile pensare che almeno il cinema d’autore e quello basato su situazioni di suspense non lo siano, perché se tale tentativo non ci fosse, avremmo rispettivamente un cinema dalla vitrea trasparenza (cioè le telecamere di controllo) e una narrazione senza brividi e imprevisti, ossia, come dicono gli esperti, un rompimento di cazzo senza pari.

Orbene, da quella sera di ventiquattro anni fa io sui meccanismi della manipolazione narrativa ho scritto anche un simpatico libro, mentre il mio amico nel frattempo è diventato il direttore di uno dei tre festival più importanti dell’intero globo terracqueo, per cui ci sono serie possibilità che avesse ragione lui, ma non importa. Tarantino con il suo aneddoto non poteva che solleticare un fervente adepto della manipolazione come me, soprattutto perché di fatto ha usato Polański per parlare della sua stessa concezione di cinema, come succede non solo nel romanzo ma in ogni singola sequenza di ogni suo film. Per cui, se vi capitasse di reagire con un movimento istintivo e improvviso, di seguire una falsa pista per poi trovarvi completamente spiazzati o di venire travolti da un dialogo lungo, prolisso, potenzialmente interminabile e poi sussultare per la tumultuosa azione susseguente, non vi preoccupate in nessun modo: siete stati manipolati. Ed è una sensazione veramente stupenda. D’altronde, non è Tarantino che fa dire alla voce fuoricampo di David Carradine nel prologo di Kill Bill «Mi trovi sadico? Sai, scommetto che adesso potrei friggerti un uovo in testa, se solo volessi». Il problema è tutto lì. Nel volessi, che dipende fortemente dal potessi. Perché, com’è ovvio, non tutti potessi.

Alla salute, Quentin.

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema pur essendo cosciente dell'inutilità.