Il Western e il suo rigor mortis

Mmm, non volevo più tornarci ma farò uno strappo. So che tra voi ci sono pochi amanti del genere, che è ormai morto e sepolto da anni, malgrado lo dica sempre quando non dovrei dirlo (per esempio durante un convegno a Bergamo al quale erano convenuti solo un casino di fans duri e puri) e l’effetto è sempre quello della bestemmia in chiesa nel raccoglimento post Eucaristia. Il western è morto, che nessuno si faccia illusioni. È cambiato il gusto degli spettatori, ormai plasmati dai ritmi forsennati di un cinema ipermoderno concentrato su stimoli e impulsi e in cui il boato sordo degli spari rappresenta una nostalgica notazione d’antan. Ma si è esaurito anche il suo preciso ruolo archetipico e antropologico. Se “Il western era il genere americano per eccellenza”, come scriveva André Bazin nella prefazione al libro di Jean-Louis Rieupeyrout, motto citato almeno quanto le Sacre Scritture, lo stesso western si è dissolto per sopraggiunta inutilità del suo ruolo storico e sociale, una volta venuto meno il mito della Frontiera e sorpassati inesorabilmente i modelli che servivano per identificare se stessi nella contrapposizione con il blocco sovietico. Quei pochi esempi ancora prodotti, ad esempio il recente Dead for a dollar di quel vecchio testardo di Walter Hill (di cui ricorderete il leggendario I guerrieri della notte), spesso sono omaggi postumi, esperienze citazionistiche, mai necessità narrative dovute a una spinta contemporanea. Chi ha qualche anno, diciamo più di 40, può fare una prova empirica: quanti bambini vestiti da cowboy vedete in una qualunque sfilata di Carnevale, Covid permettendo? Cercate bene. No, quello è Luigi, il fratello di Super Mario. Noooo, quello è Jack Sparrow. Visto? Guardato bene? Zero. Quarant’anni fa avreste fatto fatica a vedere altre maschere oltre ai cowboy, gli indiani e Zorro, che non è western ma fa sempre colore. Del western non frega più niente a nessuno, solo a qualche vecchio trombone che pensa sia l’essenza stessa del cinema.

Lonesome Cowboys, i cowboy giulivi di Andy Warhol

È un peccato, riflettendoci, perché mai come in questo momento storico di diritti calpestati, minoranze in debito di legittimazione e di fascismo dal ciclico ritorno, ci sarebbe bisogno di assumere più western possibili. Perché il western è l’unico reale e certificato genere gay. Tutti sono gay nel western, anche John Wayne. Forse non direttamente, forse non esplicitamente, ma anche la sua genìa lo è. D’altronde, hai voglia a magnificare il cielo stellato, la solitudine, la compagnia del cavallo ecc. ecc. Alla fine si è come i carcerati: bisognosi di affetto. Di qualunque affetto, anche di quello del cavaliere che sopraggiunge dall’orizzonte, non si sa mai che allevi quel maledetto languore lirico della prateria. Vi posso fare un sacco di esempi, se non mi credete, non è la solita boutade tra una birra e l’altra dei suprematisti virili e posso citarvi film ben prima di Brokeback Mountain, nel quale tutto si è rivelato e il grande pubblico, prima ignaro, si è guardato in faccia dicendo: «ma dài?». Che dire infatti di Jesse James, il ribelle dalla pistola facile (scusate la banale metafora), di cui s’innamora l’assassino Bob Ford in Ho ucciso Jesse il bandito di Sam Fuller e che è coinvolto addirittura in un perverso rapporto a cinque con la mezzosangue Rio, il cavallo Red e l’accoppiata di pistoleros Doc Hollyday (che storicamente non c’entra un cazzo, ma si sa, Hollywood non ha mai brillato per coerenza storica) e Pat Garrett, in quel capolavoro eccentrico che è Il mio corpo ti scalderà del problematico miliardario Howard Hughes? E poi, pur senza ricorrere all’evidenza provocatoria e ancheggiante di Andy Warhol in Lonesome Cowboys, se volessimo citare qualche altro esempio celebre, come non pensare all’Anthony Quinn, teso fino all’isterismo nel rincorrere il suo amore per Henry Fonda fino alla morte in Ultima notte a Warlock di Edward Dmytryk? Oppure ancora, giusto per fare una capatina qua da noi, perché la questione LGBT mica è solo degli americani, pensate al Gian Maria Volontè di Per qualche dollaro in più di Leone, che si accompagnava a Mario Brega ma ovviamente era inesorabilmente attratto da Clint Eastwood, anche se privo di un’espressione ben definita che non fosse quella di strizzare gli occhi a fessura. Che dite? La pistola come simbolo supremo del membro virile mi dovrebbe dimostrare che il western, al contrario, è un genere fallocratico? Ah, ma mi volete provocare: e allora beccatevi il breve video qua sotto, così vi do il colpo di grazia. È tratto da Il fiume rosso di Howard Hawks e quello che induce in tentazione Montgomery Clift è John Ireland, che guarda caso interpretava già il Bob Ford innamorato di Jesse James nel film di Fuller citato sopra. Vi serve altro? (non vi fate irretire dalla voce di Alberto Sordi che doppia Ireland)

Comunque, come dicevamo, qualche vecchio trombone a cui il western interessa c’è ancora. Perlomeno ci si prova. Nell’imminente Torino Film Festival che inizia domani, ad esempio, tra le poche cose degne di reale interesse (siamo sinceri, a rischio di risultare brutali), c’è una breve ed eccentrica rassegna di western pressoché sconosciuti. Non Il mucchio selvaggio, non L’uomo che uccise Liberty Valance, non Lo sperone nudo, ma Il terrore del Texas del re del B Movie Joseph Lewis (di cui amammo a dismisura La sanguinaria e La polizia bussa alla porta), nel quale si potrà ammirare un duello tra un pistolero e un marinaio che si difende con un arpione. Non Mezzogiorno di fuoco, che comunque dà il nome alla rassegna, ma il discriminatorio The Terror of Tiny Town di Sam Newfield, film del ’38 interpretato esclusivamente da nani grossi quanto i fucili. Non Il grande paese ma Le quattro facce del West di Alfred E. Green, che già nel ’48 dirigeva una storia senza cattivi e senza conflitti a fuoco, ossia come rompersi le palle lungo la Frontiera. Non I magnifici sette (altro circolo esclusivo di omosessuali), ma La cavalcata del terrore di Roy Rowland, esordio cinematografico di una Janet Leigh perennemente sorridente, tredici anni prima rispetto a quella doccia che fece capire a tutti che nei motel è meglio evitare di lavarsi, e innamorata di Van Johnson, appena tornato dalla guerra civile combattuta dalla parte avversa. Il tutto è condito dal consueto panegirico hollywoodiano sulla riconciliazione di una nazione che ha sfiorato la disgregazione per unirsi con ancora più forza (solite balle di celluloide: fate un esperimento sociale, provate a parlare con accento yankee a un redneck dell’Alabama e guardate l’effetto che fa. Un consiglio per restare in tema con quanto prima: stringete le chiappe). Malgrado alcuni momenti melodrammatici (e programmatici) interessanti in cui Van Johnson e il fratello di Janet Leigh superano la differenza di schieramento avviandosi al reclutamento lungo la stessa strada e condividendo le loro comuni passioni, il film non ve lo consiglio, ma per dovere di cronaca vi dico che se intorno a mezzogiorno (di fuoco) di sabato siete dalla parti della sala 3 del Massimo, nella solita città a vocazione industriale ecc. ecc., sono lì a presentarlo.

Come diceva il poeta nella sua versione western, “il nano è una carogna di sicuro perché ha la pistola troppo vicina al buco del culo”

Tutti questi titoli dalla scarsa originalità (sempre terrore di qualcosa, anche se il terrore in pratica non c’è) sono presenti in un volume dalla lunghissima gestazione (e non potrebbe essere altrimenti), uscito finalmente un mesetto fa. S’intitola Dizionario del western americano 1899 – 2022, è edito da Gremese, è stato curato da Roberto Guarino e Matteo Pollone e si compone delle schede di circa 1500 pellicole, scritte da una trentina di critici, come dice la quarta di copertina tra “i maggiori esperti italiani” del genere (tra loro c’è anche uno dei lettori affezionati di questo blog: lo saluto con affetto), che hanno lavorato ― credo ― cinque lunghi anni per arrivare a occuparsi di ogni singolo film, dalla cagata al capolavoro indiscusso. Quindi, qui sì che ci sono Il mucchio selvaggio, L’uomo che uccise liberty Valance e Lo sperone nudo, accanto alle curiosità citate sopra e ai titoli di culto. Vi ricordate quel film che avevate visto da piccoli in cui Gregory Peck cerca di vendicare la moglie e ammazza mezzo mondo per poi scoprire che invece la moglie era una mezza mignotta? Qua c’è. E quell’altro in cui un manipolo di cowboy aspetta l’imminente attacco degli indiani nel deserto che non arriva mai, anticipando Godot e Il deserto dei tartari ma sbracando nel finale per paura di eccedere i limiti del lecito rappresentativo? No? Be’, qua c’è. E quell’altro ancora, nel quale Kirk Douglas si fa uccidere volontariamente, arrivando al duello con Rock Hudson con la pistola scarica per evitare guai peggiori con quella che ha scoperto essere sua figlia? State piangendo? Fate bene, perché anche questo qua c’è. Perché c’è tutto, qualunque western sia stato prodotto o anche solo pensato, in qualunque momento e per qualunque motivo.

Il western è morto, verissimo, ma in giro c’è ancora qualche matto nostalgico e avventuroso, i tromboni di cui prima, che ne conserva con cura le spoglie e si dibatte e strepita quando ne avverte il respiro sempre più rantolante. Sempre pronti ad applicarsi in una respirazione bocca a bocca. E siccome si tratta di western, già che ci sono, anche a infilare mezza linguetta lasciva. 

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema pur essendo cosciente dell'inutilità.

2 Risposte a “Il Western e il suo rigor mortis”

  1. ciao. da vacchio trombone qual sono, col sì e il no che mi tenzonano int’a capa (citazione assolutamente riveduta e non corretta) che dirti? sempre insuperabile per ironia, conoscenza reale della materia, passione, se pure fose gay chi se ne fotte, che già mostravi di possedere in C’ERA UNA VOLTA IL WESTERN (UTET), il miglior saggio sul genere che io abbia letto dai tempi in cui Gianni Volpi rimaneggiava e ampliava per l’editore Feltrinelli un testo francese innovatore e godurioso per i tromboni di cui sopra, provochi qui e ora come al convegno citato, di cui rido come un pazzo immaginando di vedere alcune facce di alcuni dei presenti, più duri e i più puri (allusione sessuale? ma va’, solo un modo di dire) di tutti.Certo il dizionario di Gremese è nel suo genere esaustivo (ma il film di Walter hill che citi non c’è perchè uscito dopo la chiusurra del volumone: ci vorrebbe già un aggiornamento…). Lo dico insieme a GPF perchè nella trentina di autors – con un’ampia rappresentanza di signore e/o signone, il che mi riempe di gioia, c’è anche il sottoscritto, anche se ormai deambulante come il vecchierel canuto e stanco (O era bianco? boh!!!) di Franz Petrarca, con gobbite andreottiana e la prima ignorata o mai coverta, per parlare come Brancaleone/Vittorio (BATTUTA) per oltre 6 decenni e ora entrata a far parte della CRONICA (ho fatto una battuta maiuscola) SINDROME Di PISA o della Torre di P. , pericolosa fusione di due pendenze,in avanti e a sinistra (Ho sempre avuto ‘sta tendenza, mi!!!), che provoca talvolta ruzzoloni facili da evoare ma lunghi da rimediare. Credo pure di essere l’amico citato e salutato da GP,che ricambio con grande piacere informandoloche le intenzioni del vecio sarebbero di andare qualche volta al Centrale e di non frequentare le altre sale. Quindi niente massimo 3, salvo andare contro le regole autoimpostemi da solo e partecipare all’evento… Mah, si vedrà allora, e il sì e il no si scontrano di nuovo in singolar tenzone.Non sentite la musica del sommo Ennio M.?
    mar.mo.

    1. Caro Mario, l’amico citato e salutato sei proprio tu e nel caso inopinato in cui ti dovessi vedere al massimo 3 nell’occasione sopra citata, vista e soppesata la qualità del film, penso che ti farei accompagnare all’esterno dalle maschere. Per cui ci si vede, con grande piacere, al Centrale, in quelle 3-4 volte che conto di presentarmi.
      un abbraccio e hasta luego

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