Jump Cut: Mr Bachmann e la sua classe

Con questo post iniziamo una nuova sezione del blog, che chiamerò, per pudico ma dichiarato egocentrismo, Jump Cut. Jump è chiaro, Cut invece è il taglio del montaggio e, in questo specifico caso, l’interruzione del flusso (indefesso) dei miei pensieri che spesso, troppo spesso, vi travolge. Il Jump Cut è una figura di rottura, caratteristica di un certo cinema della modernità, una figura che ci ha sempre affascinato (io e il mio ego, ovviamente) perché finge di essere una slabbratura e invece è piazzata per rompere le palle allo spettatore. Ecco, Jump Cut è una parentesi in (dis)Sequenze, intende parlare dei film del momento in poche righe, perché si sa, visto che non vi vedo ma è come se vi vedessi, se il pezzo è lungo, prima della metà smettete di leggere. Allora, cercando di ovviare a questo, poche righe, quasi un trailer, poco più di un tweet, per inquadrare l’oggetto e non tediarvi perché il tempo è denaro e voi non vi arrendete all’idea di non farne. Ve ne accorgerete perché si centra subito il punto, senza menare troppo il can per l’aia, come invece il blog fa di solito. L’abbiamo già fatto di parlare di un film appena uscito o anche poco prima che uscisse, ma non l’abbiamo mai fatto in poche righe e non gli abbiamo mai (io e il blog, stavolta l’ego non c’entra) assegnato una sezione. Ora lo facciamo. Ero a un semaforo più lungo degli altri, questa mattina e ho pensato che si potesse fare. Questo il motivo fondante. Se lo farete fino in fondo (coraggio!), buona lettura e grazie della vostra attenzione. Altrimenti, fate altro e divertitevi.

Siccome tra voi ci sono alcuni insegnanti ― so anche questo ―, voglio segnalarvi un film appena uscito, anche se non nella città da cui scrivo: Mr Bachmann e la sua classe, un documentario tedesco realizzato da Maria Speth sul mondo della scuola e, in particolare, sul rapporto che un insegnante 65enne intrattiene con i suoi allievi nell’equivalente di una nostrana scuola media nella cittadina di Stadtallendorf, in Assia, famosa, se vogliamo, perché fu il luogo in cui nel 1956 la Ferrero aprì il suo primo stabilimento all’estero.

È un documentario molto lungo, tre ore e trentasette minuti, che testimonia di un intero anno scolastico, fino al momento in cui gli allievi terminano il loro ciclo di studi per accedere all’istruzione secondaria. Tutto è focalizzato su Dieter Bachmann, autentico fulcro su cui si fissa l’inquadratura e da cui s’irradia la relazione con la sua classe, formata da allievi di varie etnie (l’onnipresente turca, l’araba, la russa, kazaka, bulgara, addirittura italiana), tranne quella tedesca.

Bachmann, con le sue felpe rockettare e il suo zuccotto perennemente calato sulla nuca, è fautore di un’educazione che privilegia l’esperienza diretta degli allievi alla desueta (perlomeno nelle intenzioni) lezione frontale, la performance all’interrogazione, le competenze e le abilità al nozionismo. In una classe che presenta una platea così diversificata per origine, tradizione e cultura, Bachmann è anche un peacekeeper, colui che stempera le tensioni con il dialogo e il confronto, con la conoscenza dell’altro e la pazienza di sperimentare l’opposta prospettiva.

La cinepresa di Maria Speth si cala nell’invisibilità, secondo il principio documentaristico del fly on the wall, e osserva non vista (diciamo ignorata) quotidianità e reazioni emotive, pronta a registrare sensazioni e percorsi individuali dei ragazzi. Privilegiando ovviamente (non potrebbe essere altrimenti) qualcuno su tutti gli altri, con questi ultimi che invece si pongono come sfondo colorato e caratterizzante, delineando la mappa di un’Europa fondata sul bisogno che si trasforma necessariamente in desiderio di integrazione. Il ritratto, pur essendo composito, ricco, molto genuino perché frutto di una registrazione di umane debolezze, è tutt’altro che nuovo, malgrado gli strepiti di una parte della critica, che ha gridato al prodigio (punteggio Metascore su IMDb.com è 9.2: più de Il padrino – parte II: un’enormità ingiustificabile). Niente di particolarmente originale al punto da giustificare un documentario. Ma neanche un servizio sul Tg3, ad essere franchi.

Mr Bachmann e la sua classe è un film visto mille volte, se chi lo realizza ha la giusta sensibilità verso il mondo della scuola: possiede i principi fondanti della documentazione di Frederick Wiseman, mostra la sensibilità di un docente che si presenta (ed è presentato dal paratesto del film) come un anticonformista ma che alla fine è solo un insegnante paziente, tenace (ce ne sono tanti), amante del suo lavoro (ce ne sono molti meno), perché non è dotato di particolare carisma (ancora meno), solo della forza delle sue idee educative (e qua tutti sono convinti di averne). In questo, Mr Bachmann e la sua classe è superato a sinistra da quel capolavoro che è Diario di un maestro di Vittorio De Seta, realizzato quasi cinquant’anni fa ma sempre dannatamente attuale quando si parla di situazioni svantaggiate da affrontare in ambito educativo. E anche il rapporto tra insegnante e allievi, epurato dalle scorie di una conflittualità pretestuosa ed esasperante, segue le dinamiche illustrate esteticamente da Laurent Cantet in La classe, a cui rimanda anche per il finale interlocutorio con lo spazio improvvisamente vuoto dell’aula. La commozione dell’ultima scena, invece, fin troppo facile, è la stessa del maestro in Essere e avere di Nicolas Philibert, la cui influenza è ravvisabile anche nel meticoloso lavoro maieutico condotto da Bachmann con l’intera classe.

Herr Bachmann non sarà ricordato come Robin Williams ne L’attimo fuggente. Non lo è e non ne ha la caratura tragica e romanzesca, perché è un personaggio vero, vivo, comprensivo e fin troppo umano. E menomale, visti i danni che l’illusione di emulare la personalità di Keating ha prodotto in una categoria che spesso non ha una reale coscienza di se stessa, perché si sopravvaluta o si deprime. Ma quello che mi ha divertito maggiormente è la lettura che ne ha fatto certa critica illusa di sapere sempre tutto. Anche di scuola, pur non entrandoci da trent’anni. Che dire dell’accusa di narcisismo (Bachmann è sempre al centro di ogni attività proposta agli allievi. Che roba incredibile, eh?) o della condanna per aver raccontato cose intime di se stesso (l’alcolismo dei genitori o l’età della sua prima volta, tra l’altro considerazioni tutt’altro che gratuite dal momento che sono risposte a precise domande dei ragazzi)? Mi potrei indignare per l’ottusità di certa critica spocchiosa, ma è da insegnante che mi cadono letteralmente i coglioni (lo so che non sono educativo: è il mio dissidio morale): la scuola è scambio e trasparenza, non puoi pretendere di ottenere qualcosa dai ragazzi se non ti metti in gioco completamente come persona, con sincerità, competenza e passione. Se non lo fai, puoi sempre fare il critico.

La scuola è finita e gli allievi se ne vanno: lacrima finale

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema pur essendo cosciente dell'inutilità.

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