Monica e il desiderio (di tutti)

La foto ufficiale della manifestazione Noi Vitti siamo fatte così

Ne approfitto per un augurio. A Monica Vitti, nata Maria Luisa Ceciarelli, che ieri, 3 novembre, di anni ne ha fatti 90. E ne approfitto per due righe a margine di una serie di incontri, conferenze, proiezioni pubbliche (Cinema Massimo, a Torino) e private (Mymovies) e manifestazioni che proprio ieri sono iniziate e continueranno fino al 24 novembre (qua il programma). Per organizzarli si sono messi in tanti, Distretto Cinema, il Museo Nazionale del Cinema, l’Archivio Michelangelo Antonioni di Ferrara, il Polo del ‘900, la Cineteca Nazionale e anche Mymovies, come detto.

Presentazione della rassegna dedicata a Monica Vitti in occasione dei suoi 90 anni al Polo del ‘900 di Torino, 3 novembre 2021: da sinistra, Alessandro Bollo, direttore del Polo del ‘900, Francesca Gavioli dell’Archivio Michelangelo Antonioni di Ferrara, Giulia Magno, autrice dell’opera di videoarte Esterno giorno, Fulvio Paganin, presidente di Distretto Cinema e un infiltrato.

Ognuno, se ha toccato almeno i cinquant’anni o se è un cinefilo con parametri sfalsati rispetto al mondo reale, ha la sua personale immagine di Monica Vitti. Per me, ad esempio, quando negli anni Ottanta ero un ragazzino, la Vitti era la coniuge che entrava costantemente in crisi e beccava un fracco di mazzate sferrate nel tentativo di farla rinsavire, sicuramente influenzato dalle botte prese da Alberto Sordi nella celebre scena sul litorale di Sabaudia di Amore mio aiutami (solo in seguito scoprii che in realtà le botte le aveva prese la sua controfigura, Fiorella Mannoia, conosciuta dai denigratori durante la sua carriera di cantante anche come Fiorella Miscazza, per quell’ipotesi di apostrofo che avrebbe chiarito molto fin dal nome). Sign o’ the Times, come diceva Prince. Se ognuno ha una sua immagine è perché la vera forza della Vitti è sempre stata la versatilità. Diversissima dalle grandi attrici del cinema italiano. Da una Sofia Loren, che ha sempre incarnato la diva per eccellenza. Diversa da un’Anna Magnani, che anche quando si lasciava un po’ andare ha sempre indossato una maschera tragica. Forse il paragone possibile, come ha suggerito Alberto Crespi sulle pagine di ieri di «Repubblica», potrebbe adattarsi con Mariangela Melato, anche se la Melato non è diventata un volto della commedia all’italiana come Monica. E allora il riferimento migliore, volendolo proprio fare, potrebbe essere Aldo Fabrizi, capace di passare dal delitto di Giovanni Episcopo al bigliettaio di Avanti c’è posto, passando per Orazio il bidello pronto al sacrificio per non ostacolare la carriera del figlio professore, semplicemente alternando un frizzo a un lazzo, sostando sul precipizio di un silenzio attonito che prelude spesso al dramma. Così come Fabrizi, Monica Vitti ha mostrato un’invidiabile ampiezza del suo registro attoriale che l’ha portata ad avvicendare il comico al drammatico grazie a un piccolo cenno del capo, mitigando un’espressione oppure prolungando un sorriso per trasformarlo naturalmente in paresi traumatica e dimorando stabilmente in quel momento di passaggio che divarica gli estremi emotivi allargando la gamma di espressività della recitazione. A volte anche all’interno dello stesso film, come la stupefacente interpretazione di Teresa la ladra (Carlo di Palma, 1973) dimostra inequivocabilmente.

Un’immagine di Deserto rosso

Eppure, come diceva Brian Cox ne La 25ª ora di Spike Lee, «c’è mancato poco che non succedesse mai». Quando era ancora Ceciarelli fu respinta al primo tentativo di entrare all’Accademia di arte drammatica Silvio D’Amico perché ritenuta ancora acerba; vi entrò l’anno successivo (è il 1950) solo dopo aver minacciato di gettarsi sotto una macchina in caso d nuovo fallimento. Destavano perplessità la voce roca e il naso irregolare: la sua non era la bellezza giunonica delle attrici maggiorate degli anni Cinquanta, bensì un fascino eccentrico e magnetico in anticipo di quasi vent’anni, quando, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta si sarebbe scoperto l’effetto della parola sensualità. Prende dalla madre, che di cognome fa Vittiglia, il nome d’arti Vitti, da quella stessa madre che vantando il primo figlio avvocato e il secondo giornalista, assumeva un tono sommesso quando parlava del mestiere di Monica, ormai non più Maria Luisa. Uno dei suoi insegnanti all’Accademia, Sergio Tòfano, quello del signor Bonaventura, le consigliò di far leva su quegli stessi difetti che le stavano precludendo la carriera e fu la svolta, ma non subito. All’inizio le davano solo da doppiare «ladre e mignotte», come lamentò lei stessa, e lo fece in film importanti come I soliti ignoti e Accattone. Ma mentre doppiava Il grido la notò Antonioni, che grazie anche a lei divenne il Maestro dell’alienazione. Con Antonioni ne fece quattro (poi un quinto, nell’80, ma tutti fingono di non ricordarlo): Claudia, ne L’avventura sostituisce nella centralità del film Lea Massari, fidanzata con Gabriele Ferzetti, sparita dopo 24 minuti su uno scoglio delle Isole Eolie; ne La notte è Valentina, figlia di un industriale che durante una festa offre un diversivo a Marcello Mastroianni, annoiato scrittore in crisi con la moglie Jeanne Moreau; è Vittoria ne L’eclisse e gira per una Roma che allude a una progressiva desertificazione dei sentimenti e delle prospettive in compagnia di Alain Delon (poteva andarle sicuramente peggio) ed è Giuliana in Deserto rosso, primo film a colori di Antonioni, ispirato alle tele di Giorgio Morandi e per questo apparentemente ancora più in bianco e nero dei film precedenti. È qui che la Vitti dice ad un certo punto per rendere sensibile la sua crisi che le “fanno male i capelli“, che a me studente fece tanto ridere, non sapendo che invece era una citazione di una poesia di Amelia Rosselli. Beata ignoranza.

Ogni personaggio un tipo umano, come ben sa Eleonora Marangoni, che a tutti i personaggi interpretati in carriera dalla Vitti ha dedicato una raccolta di racconti intimi e sofferti racchiusi nel titolo E siccome lei, edito da Feltrinelli. Un caleidoscopio di umori e sensazioni che sbrigativamente la fecero eleggere a Musa dell’incomunicabilità. E invece Monica comunicava eccome. Comunicava talmente tanto che una volta conclusa la sua storia d’amore con Antonioni, forse anche perché dopo la parabola rappresentata in Deserto rosso era impossibile andare drammaturgicamente oltre, Monicelli ebbe l’intuizione di farla diventare un’attrice comica, alla faccia della depressione residuale della tetralogia. Passaggio provato anche da Francesco Maselli l’anno prima con Fai in fretta ad uccidermi…ho freddo, che anticipava di qualche settimana un analogo tentativo di Luciano Salce (Ti ho sposato per allegria), ma mentre queste due pellicole non ebbero successo, La ragazza con la pistola di Monicelli fece il botto. Capelli tinti di scuro, sguardo malinconico, ritrosia tenuta faticosamente a freno (e probabilmente mai prima e mai più dopo così tanto bella), l’Assunta Patanè della Vitti è la ragazza siciliana che dopo essere stata “disonorata”, come il filone meridionalistico della commedia all’italiana imponeva (vedere Pietro Germi cosa ne raccontò in quei due capolavori che sono Divorzio all’italiana e Sedotta e abbandonata), corre a vendicarsi in Inghilterra dove l’amato (Carlo Giuffrè) è fuggito, confrontandosi con l’altera mentalità del nord (Europa) e con l’immagine di una donna (anche italiana) che si stava lentamente emancipando per diventare splendidamente indipendente. Il film ricevette una nomination all’Oscar come miglior film straniero nel 1969, Monica fece incetta di premi nostrani, tra David di Donatello, Nastri d’argento e Globi d’oro e inaugurò la sua seconda vita, in qualche modo antitetica alla prima, come volto raggiante nel suo innato umorismo in quelli che furono gli ultimi squilli di commedia all’italiana, immagine cementata subito dopo dall’Adelaide vittima predestinata in Dramma della gelosia, nell’attrice di avanspettacolo Dea Dani di Polvere di stelle, capace di armonizzare anche la grossolanità di una canzone come Ma ‘ndo vai se la banana non ce l’hai? e nella commovente storia raccontata in Teresa la ladra, probabilmente la sua interpretazione più intensa.

Vitti ‘na crozza: Assunta Patané ne La ragazza con la pistola, canto del cigno del filone meridionalistico e inizio della seconda parte della carriera della Vitti

Prima di diventare il volto della commedia, lavorò anche con Joseph Losey, anche se quello di Modesty Blaise è tutt’altro che il migliore dei Losey possibili, e subito dopo aver cantato con Sordi sulla banana hawaiana partecipò anche a una breve sequenza de Il fantasma della libertà di Buñuel, quella in cui una coppia borghese scopre delle foto osé in possesso della figlia adolescente che noi registriamo in un primo momento solo attraverso le espressioni scandalizzate della famiglia. Pare una tragedia di ambientazione borghese e invece è l’ennesimo sberleffo di Buñuel al perbenismo e all’ipocrisia di una classe sociale che da sempre adorava fustigare. Ancora una volta, però, Monica impiegò la giusta tonalità per far sembrare assolutamente ordinario quello che con un volto diverso sarebbe sembrato totalmente assurdo e inaccettabile.

Locandina del cortometraggio di Giulia Magno Esterno giorno, presentato la sera del 3 novembre e ispirato, oltre alla figura di Monica Vitti ne L’eclisse e Deserto rosso, al rapporto tra il cinema di Antonioni e l’arte di Mark Rothko e Giorgio Morandi

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema pur essendo cosciente dell'inutilità.