Punti di congiunzione e mani di bianco

Charlize Theron, Nicole Kidman e Margot Robbie in Bombshell

Hollywood, si sa, è il regno della riverniciatura.

Se scoppia uno scandalo, ignora la possibile collusione e ci fa un film di denuncia.

Una mano di bianco e la verginità rimane intatta. Facendo anche la figura di quelli che hanno il coraggio di denunciare l’inghippo. (applausi!)

Ora, sapete bene il casino che è successo quasi tre anni fa, quando una sorta di class action al femminile si è coalizzata per denunciare i soprusi predatori di Harvey Weinstein, fondatore della Miramax prima e produttore di tutti i film di Tarantino poi, tranne il primo e l’ultimo. Weinstein, il Re Mida del cinema indipendente che Meryl Streep chiamava “Dio”, executive di alcuni tra i più grandi successi degli ultimi trent’anni, da Il signore degli anelli a Sono pazzo di Iris Blond (su oltre 300 film, può capitare).

Come conseguenza, nell’ottobre 2017 nasce #metoo, nel gennaio 2018 Time’s Up, si arriva anche a qualche eccesso talebano di furore evirante, ma finalmente, dopo un centinaio di anni in cui, a Hollywood (e non solo), il casting si è sempre fatto sul divano e tutti lo sapevano senza preoccuparsene più di tanto (se qualcuno volesse approfondire il percorso artistico di qualche diva, dia una sfogliata a questo: prezioso, appena ristampato), ora Hollywood, sempre sul pezzo quanti altri mai, soprattutto se c’è da intercettare una cospicua fetta di pubblico, decide di indignarsi e dire «ora basta, è una vergogna, è il momento di denunciare quest’assurdità! Porca puttana! – Ops, pardon».

E lo fa con una faccia come il culo che lascia allibiti. In un florilegio di titoli che cambiano completamente la prospettiva, concentrandosi sul revanscismo femminile in una società grettamente maschilista, in cui l’obiettivo da raggiungere per le donne qualche volta è la parità, altre una rivincita estemporanea, altre ancora il totale avvicendamento di genere. Date uno sguardo a Midsommar, nel quale i maschi sono talmente idioti che il falò finale arriva come una liberazione soprattutto per il pubblico, oppure a Doctor Sleep, anche se qua, invece, è il film a essere completamente idiota, oppure a Piccole donne, in cui la povera Jo March deve fingere di essere uomo per poter pubblicare un racconto, a Light of my life, nel quale le donne, dopo un’epidemia, ma guarda un po’!, sono diventate preziosissime perché rare (per alcuni un’involontaria metafora del Lockdown) o anche a The Invisible Man, che racconta come una donna vessata, maltrattata, seviziata, ossessionata, alla fine stravinca per manifesta catarsi. E il fenomeno investe anche le serie tv, che forse, attualmente, garantiscono quella porosità attraverso la quale una società rivede maggiormente se stessa. Si pensi solo agli abusi psicologici seguiti all’abuso fisico di Unbelieveble (Netflix) oppure al detective Millie Morris che in Hunters (Amazon prime) mostra un vero pistolone a un viscido molestatore senza volto che nella metropolitana newyorchese le si e è strusciato contro mostrandole il suo, peraltro di calibro inferiore (The Handmaid’s Tale, a cui qualcuno di voi starà pensando, è uscita qualche mese prima dello scandalo Weinstein e comunque è tratta da un romanzo della Atwood dell’85).

Capita poi che una serie tv e un film convergano nel medesimo punto, raccontino la stessa cosa e siano realizzati pressoché in contemporanea. Ed è qui che volevo arrivare, in questa fase della nostra vita di visioni a chilometro zero. The Loudest Voice (Sky Atlantic) e Bombshell, che sarebbe dovuto uscire nei cinema il 26 marzo se non ci fosse stato ecc. ecc. e che invece uscirà dopodomani 17 aprile su Amazon prime, raccontano entrambi degli eccessi (reali) del canale Fox news e delle malefatte del plenipotenziario Roger Ailes, uno degli uomini più televisivamente abili e politicamente potenti d’America, capace di far eleggere presidente Trump (e prima Nixon) con una campagna mirata e martellante che riuscì a farne dimenticare le scellerate dichiarazioni pubbliche (molte delle quali contro le donne, manco a dirlo). Se Bombshell si concentra solo sullo scandalo sessuale che vide il flaccido Roger (qua interpretato da John Lithgow) pretendere favori nel segreto del suo ufficio (e con la connivenza dei suoi più stretti collaboratori) da ambiziose anchor woman alle prime armi, le sette puntate di The Loudest Voice hanno un respiro narrativamente più ampio, com’è ovvio che sia, perché partono dalla fondazione dell’emittente, nel 1996, passano attraverso l’11 settembre e dalla dolorosa (per l’emittente) elezione di Obama, per giungere alla questione degli abusi sessuali di Roger (qua impersonato da un urticante Russell Crowe, meritatissimo Golden Globe) solo nelle ultime due puntate.

In Bombshell l’abuso è atto, umiliazione, paura e timorosa reazione, in The Loudest Voice è manipolazione avvolgente che non risparmia niente e nessuno, travolge tutti e si fa allegoria del potere, soprattutto mediatico, in un’etica della dissoluzione che riguarda i giochi politici, la fabbricazione delle notizie per modellare il presente, il tessuto dei rapporti di sudditanza all’interno della vasta redazione.

Bombshell si colloca involontariamente negli interstizi di The Loudest Voice: se in quest’ultimo appaiono centrali la figura di Roger Ailes e la sua informazione reazionaria appositamente costruita per sobillare la True America (ossia quasi tutto quello che c’è a ovest dell’Hudson), Bombshell mostra la parte importunata, la redazione di donne costrette alla scosciatura perché «it’s a visual medium» e dev’essere parte integrante della loro professionalità. Al centro della narrazione c’è un trio di giornaliste che incarna tre anime, personalità e reazioni differenti rispetto all’abuso ricevuto. C’è la giornalista affermata (Megyn Kelly, una fantastica e irriconoscibile Charlize Theron – la stessa Kelly che in The Loudest Voice brilla invece per la sua assenza), che ne ha subìto uno in passato, l’ha rimosso per poter andare avanti e poi, come se il trauma fosse riaffiorato improvvisamente, decide di agire, apportando tutto il suo peso carismatico. C’è la anchor woman giunta al termine di una lunga collaborazione (Gretchen Carlson, interpretata da Nicole Kidman, piuttosto sommessa) che ha registrato per un anno i colloqui con il suo capo ed è pronta ad alzare il polverone e a subirne le conseguenze mediatiche (in The Loudest Voice le scene in cui la Carlson/Naomi Watts registra i colloqui con Roger Ailes sono particolarmente tesi e  avvincenti; in Bombshell  sono un semplice dato di fatto). E infine c’è la giovane redattrice dalla sensualità esuberante intrappolata in movenze impacciate, immagine riassuntiva di tutte le impiegate fragili e smarrite esistenti in un ambiente predatorio (Kayla Pospisil, unico personaggio appositamente inventato, interpretato da un’irradiante Margot Robbie).

Mi rivolgo adesso ai maschietti. Fate un test. Quando vedrete la scena in cui Margot Robbie è costretta a tirarsi sempre più su la gonna davanti allo sguardo floscio e catatonico di Roger Ailes nella John Lithgow version, dimostrate di aver compreso il significato congiunto del film e (di parte) della serie televisiva e verificate se provate sincera compassione per la malcapitata donzella. Se invece vi brillasse un lampo anche solo fugace negli occhi, vuol dire che non avete capito niente. Sì, lo so, lei è Lei. Ma siete malati lo stesso.

E non date la colpa alla quarantena.

Lo sguardo professionale di Roger Ailes su Gretchen Carlson in The Loudest Voice

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema pur essendo cosciente dell'inutilità.