Sadismo oppure esperimento antropologico?

Se ne parla dal gennaio del 2019, praticamente dall’anno uno a.C. (avanti Covid), quando ancora era possibile visitare un museo preoccupandosi solo dell’afrore d’ascella di colui che stazionava accanto guardando l’opera. Io stesso avrei voluto parlarvene a novembre dello scorso anno, a fine anno zero, quando sono entrato in contatto con uno dei film di cui vi sto per parlare, ma ho desistito, uno, per il motivo per cui è nato questo blog, ossia parlare di qualcosa solo quando è il caso e, due, non mi sembrava poi tanto il caso, visto che il film era ancora di quasi impossibile reperimento e quindi, in mancanza di un terreno di confronto comune, avrei parlato di qualcosa di intangibile, dando magari, del tutto involontariamente, l’idea di tirarmela un po’. (Ci sarebbe anche il terzo validissimo motivo, strettamente collegato al primo, che forse arrivati a questo punto avrete ormai capito ma che ora vi confesso a scanso di equivoci: a volte non c’ho proprio cazzi. E non perché la mia vita sia particolarmente avventurosa come quella di Indiana Jones, non ho proprio voglia di scrivere e basta. Ma non sentitevene offesi, vi apprezzo, lo sapete, è che spesso sono un po’ indolente). Bene. Di cosa stavamo parlando? Ah, di DAU! Di cui finalmente vi posso parlare perché adesso invece se ne sono accorti in tanti, ne hanno parlato anche i quotidiani e quindi ormai è il caso di farlo, perché è un progetto davvero delirante al cui confronto il «Te amo, te quiero, tequila» di Elettra Lamborghini è l’incipit della Commedia ed essendo approdato nelle sale DAU. Natasha, il primo film di una serie di quindici, volendo, ora abbiamo anche un terreno di confronto (gli altri quattordici sono reperibili e acquistabili a un prezzo contenuto qua, sul sito ufficiale del progetto).

Sembra il Conad ma è il set di DAU in costruzione

Cos’è DAU e perché se ne parla da così tanto tempo? Perché DAU è il sogno utopico di un’arte assoluta oppure il progetto di un folle, scegliete voi, sono azzeccate entrambe le risposte. Ve lo racconto in presa diretta, va’. Dunque, Ilya Khrzhanovskiy è un giovane regista moscovita, a cui non fanno difetto né l’ambizione né la sfacciataggine. Nel 2004, a 29 anni, presenta il suo esordio, 4, alla Mostra del cinema di Venezia, il film viene apprezzato anche se non ottiene nessun riconoscimento (ma li otterrà negli altri festival cui parteciperà) e il suo ego comincia a lievitare. Si prende il suo tempo e nel 2009, insieme al produttore Sergey Adonyev partorisce DAU, una sorta di biopic sul fisico sovietico Lev Landau, Premio Nobel 1962 (il Dau del titolo, per gli amici), in realtà affresco su quarant’anni di Unione Sovietica, dal 1938 al 1968. Costruisce in Ucraina, che non è più Russia da tempo, come sapete, ma che i russi, sempre come sapete, sentono ancora piuttosto loro, allestendolo nei minimi particolari, dai piatti d’epoca al cibo consumato, un set di 12mila metri quadrati, non proprio lo spazio per un kammerspiel quanto di un nuovo outlet; scrittura, ma in realtà sarebbe meglio dire recluta, alcune centinaia di persone, tra attori, comparse, tecnici e maestranze, li costringe dietro un accordo di riservatezza a vivere insieme 24 ore al giorno, sette giorni su sette, per tre anni. MINGHIA, C’RE ANNI!, come disse Antonio Catania quando atterrò con il suo aereo in Mediterraneo. Praticamente li chiude nell’unica bolla che abbia davvero avuto speranza di essere funzionante, peccato si sia formata ben prima di quando sarebbe servita. I 12mila metri quadri non rappresentano solo il set di un progetto cinematografico che sfiora il dogmatismo religioso, ma nel furore di onnipotenza di Khrzhanovskiy lo spazio utilizzato da DAU funziona in molti modi, dallo show room architettonico modernista al museo sulla vita quotidiana dell’URSS nel corso dei quarant’anni in oggetto, passando per l’installazione multimediale che ha esordito in una mostra evento a Parigi, più di due anni fa. Comprensibilmente, chiedendo a chi vi lavora un’aderenza così totalizzante, il passo per giungere a situazioni oltre il limite è piuttosto breve, per cui alcuni testimoni che evidentemente non hanno rispettato l’accordo di riservatezza parlano di clima da setta adorante nei confronti del suo regista-guru, come se il cast e la troupe fossero una piccola Pia Unione di Gesù Misericordioso nei confronti di Mamma Ebe, che i santi l’abbiano in gloria ora che non è più su questo volgare e insensibile mondo. Come si sa, se in una setta ti titillano da dietro il lobo dell’orecchio la minaccia è sempre 50 centimetri più in basso, e così pare che sia successo durante non solo i tre anni in cui tutti hanno vissuto insieme, ma anche nei dieci anni successivi necessari a ultimare tutte le riprese, le quali, a proposito, hanno accumulato 700 ore di materiale divise nei quindici film che compongono l’intero progetto per una spesa totale di un centinaio di milioni di dollari (e che elevano il mio amato Cimino a un pragmatico autore di cortometraggi). Quindi, abusi sessuali e psicologici, plagi, violenze e molestie, molte delle quali stimolate per essere riprese e quindi certificate nelle immagini dei vari film. Ad esempio, in Natasha, la cameriera eponima è interrogata da un (vero) ex agente del KGB dal nome improbabile (ma altrettanto vero), Vladimir Azhippo, e realmente abusata con una bottiglia di vodka, atto che pur nella sua normalità drammatica (nessun artificio di regia, solo una leggera inclinazione dall’alto) supera abbondantemente a sinistra il crocifisso con cui la piccola Regan, tutta verde di bile demoniaca, si autopenetrava gridando le cose peggiori al povero padre Karras (che resta, probabilmente per il fatto di essere sempre stato preda del dubbio, l’unico prete per cui andrei in chiesa). Inoltre, non ci sono solo agenti del servizio segreto sovietico: per par condicio, nel cast, per larga parte rigorosamente non professionista (setta o non setta, provate a chiedere all’attore professionista se accetta di chiudersi per tre anni in un hangar perdendo altre occasioni di lavoro), un cast che però può vantare anche Marina Abramovic nei panni di una professoressa di antropologia (in DAU. Degeneration), c’è anche Maksim Martsinkevich, neonazista, animatore del gruppo Occupy Paedophilia, tristemente celebre per le sue arbitrarie punizioni verso gran parte della comunità LGBT russa e ucraina, ritenuta nel suo insieme responsabile di spaventosi abusi sui minori, punizioni perpetrate prendendo a calci le vittime e umiliandole versando loro urina in testa. Condotta coperta dalle autorità locali e autocelebrata con video pubblicati sulla pagina Facebook dell’organizzazione, video che, contravvenendo alla logica di questo blog per cui a ogni sollecitazione corrisponde la susseguente visione, non linkerò, perché, non so se s’era capito, ma per formazione, disposizione e memorie paterne questo è un blog antifascista e di conseguenza mette al bando tutti gli stronzi nazisti (tranne quelli dell’Illinois) e chiunque vanti la puntualità dei treni di quando c’era Lui. Per la cronaca, il buon Maksim è stato trovato morto in cella nell’anno zero e il suo caso derubricato come suicidio, anche se alcuni segni di tortura farebbero propendere per un omicidio e le telecamere della prigione, guarda caso, quella notte non funzionavano. (Consentitemi anche un’altra breve riflessione en passant: è davvero singolare che tutte le teorie complottiste, a partire dai QAnon, abbiano come punto di confluenza la lotta contro la pedofilia, che avrebbe ― udite, udite! ― Trump come massimo oppositore di questa fantomatica organizzazione mondiale che si scambierebbe i bimbi come se fossero le carte dei Pokemon. Ma se volete approfondire, meglio leggere questo, io mi limito a strabuzzare gli occhi e a ridere per un paio di minuti, prima di essere sopraffatto da un vuoto cosmico che pare ormai pressare da ogni parte. Lo spettro della violenza sui bambini come passepartout per legittimare tutto il resto, in ogni ambito: «tu hai intascato tangenti!», «e tu guardi il culo ai bambini al parchetto!», «tirate fuori i 49 milioni!», «e allora Bibbiano???» in un dialogo tra sordi che rivaluta pure la capacità d’ascolto della famiglia Bélier).

Capito che ambientino il set di DAU? Un delirio, ma un delirio talmente grande che lo scrittore torinese Gianluigi Ricuperati ci ha scritto sopra addirittura un libro, dall’inequivocabile e onnicomprensivo titolo Est.

Vladimir Azhippo poco prima di cimentarsi nel gioco della bottiglia con Natasha

Natasha, il primo a uscire, si diceva, dopo la presentazione insieme a Degeneration a Berlino lo scorso anno, è ambientato nel 1942 e diviso di fatto in tre parti. La prima ci mostra la cameriera protagonista e il suo lavoro nella mensa dell’enorme laboratorio di fisica, quello che pare un outlet (ma sovietico, quindi con negozi che vendono tutti le stesse casacche e con le commesse dallo sguardo spento: tristissimo), la sua quotidianità con la giovane collega Olga, la sua propensione a bere superalcolici con cui mitigare un vuoto d’affetti espresso solo a parole ma che la fotografia pastosa e soffocante di Jürgen Jürges (che ha lavorato con Fassbinder e Haneke, altri che di senso di soffocamento se ne intendevano), premiato come miglior contributo artistico a Berlino, e la fissità altrettanto claustrofobica dei luoghi non può che confermare. Nella seconda parte, Natasha cede alle lusinghe di un fisico francese tutt’altro che affascinante (pelato per di più!) in una lunga scena pressoché pornografica in cui l’atto è tutt’altro che suggerito e in cui le imperfezioni dei corpi, la mollezza degli organi e la formale assenza di un montaggio analitico obbligano lo spettatore a un voyeurismo inconsueto e repellente, ben oltre la pratica del porno amatoriale, quasi da buco nel muro a spiare i vicini (negli anni Settanta ci si barcamenava così). Nella terza parte, cinicamente modulata tra illusoria accondiscendenza e spietata vessazione, Natasha è interrogata, torturata e umiliata dal già citato funzionario del KGB Azhippo a causa del rapporto avuto con il fisico straniero e obbligata a firmare un atto di accusa. Il nuovo femminismo non farà alcuna polemica perché il film non lo vedrà, ma c’è più offesa alla dignità femminile in questa lunghissima sequenza che in tutti gli altri lavori prodotti recentemente dal cinema, sui quali invece le discussioni si sono susseguite ferocemente (e talvolta gratuitamente, nel mio piccolo vi ricordo questo). 

Se non hai 18 anni passa oltre: Bassa macelleria e macerie abbandonate nella seconda parte del film

Dopo tutta questa premessa qualcuno di voi, se non tutti e 25, potrebbe obiettare «ma perché cazzo dovrei andare a vedere il film di questo demente, demente tu per primo che lo proponi?» Il motivo non c’è. Io non ve l’ho consigliato, ve l’ho segnalato, perché la storia è singolare e meritava un post (alla buon’ora), in uno di quei rari casi in cui bisogna dare al paratesto ciò che è del paratesto perché trascende di gran lunga il testo. Anche perché il testo, cioé il film, è impegnativo, talvolta insostenibile. Mentre lo guardavo pensavo alla locuzione inventata da Truffaut per raccogliere i saggi di André Bazin su Stroheim, Dreyer e Buñuel, «Cinema della crudeltà», a cui si potrebbe ascrivere anche il Pasolini di Salò e del finale di Porcile. Ma poi ci è arrivato anche il titolista de La Repubblica e me ne sono vergognato. È cinema sadico travestito da esperimento antropologico e viceversa, a seconda della prospettiva adottata. Lo hanno soprannominato «il Truman Show stalinista» ma pur ponendosi in una dimensione intermedia tra iperrealtà e sua spontanea ricostruzione, diversamente dal film di Peter Weir che era fiction concentrica, sonda il criterio dell’etica in funzione del totalitarismo che mette in scena. Comunica attraverso le sensazioni stimolate dai limiti del visibile e stringe come un cappio per immergere il pubblico direttamente nell’esperienza. Non si deve per forza vedere ma esiste ed è utile saperlo.

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema pur essendo cosciente dell'inutilità.