Tre film politici. A loro modo.

Che cos’hanno in comune Tolo Tolo, Sorry We Missed You e Hammamet oltre al fatto di essere usciti tutti nel giro di dieci giorni? Niente.

Tre pellicole diversissime tra loro, tre modalità di approcciarsi al cinema e al mondo quasi opposte tra loro. Eppure.

Eppure, ognuna a suo modo, conduce a un punto di contatto dato dalla riflessione politica che si origina. Una riflessione su chi siamo, su chi eravamo e soprattutto cosa siamo diventati.

Tolo Tolo è un film superficiale ma molto divertente, se ne frega del politicamente corretto, anzi ne rincorre spesso il rovesciamento, sconfina volentieri nel cattivo gusto, come quando mette in scena un balletto da musical tra le onde del mare per raccontare il rovesciamento di un barcone che avrebbe meritato una sensibilità maggiore, ma possiede un enorme merito. Quello di aver portato al cinema un pubblico inconsapevole che nella migliore delle ipotesi è vittima di quel pregiudizio latente che è giusto un gradino sotto il razzismo ma che lo diventa non appena venga meno un minimo di controllo. Lo ha portato a tradimento, per fidelizzazione passata con il personaggio di Checco Zalone, perché in fondo in quello stesso personaggio dotato di un’ignoranza crassa ma che fa tanta allegria alla fine si rispecchia, con le sue scarpe Prada, la sua polo Ralph Lauren e i suoi pantaloni Dolce & Gabbana, la sua disponibilità ad aggirare le tasse, anche se poi a malincuore qualche volta le paga. Tra tante risate e qualche borbottio di minima disapprovazione durante la trasformazione in ducetto del protagonista, vittima di un fascismo affiorante «come la candida», grandissima verità che proprio in quell’istante trovava la sua conferma. Forse perché vederselo sbattere così in faccia, direttamente, senza neanche un filtro allegorico che possa indurre al dubbio di aver capito male, può essere pesante da accettare. Tolo Tolo più che come film va valutato come un prisma: il progressista che ha accettato il gioco scegliendo per una sera di non vedere film iraniani riderà dell’italiano medio sentendosi immancabilmente superiore; il qualunquista riderà senza saperlo di se stesso pensando che alla fine il Checco Zalone protagonista è un bravo cristo; il fascista più o meno latente e il leghista dichiarato rideranno dei ritmi vertiginosi della comicità mostrata e penseranno che sì, finché sono confinati sullo schermo, con ‘sti negher ci si può anche divertire. È il paraculismo di chi ormai sa di essere un Re Mida nostrano e che può quindi permettersi di fare ciò che vuole, anche di rinfacciare tutte le contraddizioni di cui si nutrono milioni di persone facendo credere loro che si stia parlando sempre di quello seduto accanto.

Sorry We Missed You è il solito film di Ken Loach, forse l’unico cineasta in Europa a credere che un discorso politico sia ancora possibile pur essendo arrivati nel 2020 e che niente sia cambiato dai tempi di Riff-Raff e Piovono pietre ― se non peggiorato: si veda la Brexit da loro e il Berlusconismo da noi, con tutta la personalizzazione politica che ne è seguita, pur senza avere una grossa personalità che la giustificasse, se non boria, vanità, incompetenza e imbeccate costanti alla pancia dell’elettorato. Loach e Paul Laverty lavorano sempre allo stesso modo, con lo stampo. Le loro storie rappresentano una costante metafisica della sventura: un individuo volenteroso cerca di sopravvivere; dopo un primo tempo in cui s’illude di potercela fare, la società, impietosa come nemmeno la Natura di Leopardi, si richiude su se stessa tramite una serie di enormi complicazioni, contestuali e personali, e polverizza chi ha avuto l’ardire di crederci, anche solo nel tentativo di continuare a rimanere vivo. Fine. Il nuovo Lumperproletariat di Loach sono i corrieri di Amazon, per intenderci, tanto per farci venire uno spiccato senso di colpa, se siamo almeno dalla parte progressista del pubblico di Tolo Tolo pur senz’amare particolarmente il cinema iraniano, ogni qualvolta, d’ora in avanti, schiacceremo “Aggiungi al carrello” e “Acquista ora” (ammesso che fossimo così sprovveduti prima da ignorare il problema). Loach ha dalla sua la grande capacità di rendere tristemente umani i suoi personaggi, anche quando elabora un racconto a tesi, anche quando valanghe di melma li ricoprono giorno dopo giorno, anche se il crudo realismo della messa in scena tenderebbe a creare un diaframma tra spettatore e vicenda narrata. Cinema necessario, tristemente demodé. Non tanto per il cinema in sé, quanto per le nostre preoccupazioni.

Di Hammamet, giustamente, tutti hanno magnificato l’esorbitante prova di Pierfrancesco Favino, per il quale pare si sia avverata la profezia che fece la serie televisiva Boris nel 2010: «Una volta c’erano i ruoli per gli attori, ora li fa tutti Favino». Un Craxi mimetico, dalla stessa inflessione, dagli stessi gesti, dallo stesso incedere. Tanto di cappello. Ma a proposito di cappello, e malgrado l’esaltazione generalizzata per il trucco di Andrea Leanza con cui Favino è letteralmente diventato Craxi, in particolari condizioni fotografiche, soprattutto nelle immagini notturne, la calotta calva posta sul capo evidenzia la sua linea di applicazione, diventando improvvisamente straniante e trasformando la mimesi attoriale, anche solo per un istante, ne I clowns di Fellini. Fellini, tra l’altro, che rientra in qualche modo verso la fine, quando il simbolismo sognante (e in odor bruciacchiato di cortocircuito) s’impossessa di Amelio e gli fa attingere a piene mani da Amarcord e da La città delle donne, oltre che dal Jean Vigo di Zero in condotta e dal Visconti di Rocco e i suoi fratelli nell’incontro sulle guglie del Duomo del Craxi postumo con il padre (altrettanto postumo: Omero Antonutti che lo interpreta è venuto a mancare all’inizio di novembre). Perché Hammamet è una cronaca degli ultimi giorni punteggiata dal cinema, a guardar bene. È un film che relega il giudizio politico in una dimensione totalmente intima e rassegnata, è l’osservazione di un indomito sconfitto dalla Storia che punta alla sopravvivenza individuale pur sentendo incombente la propria fine, ma è anche una vicenda che nella prima parte si sostanzia attraverso tre pellicole viste nello schermo televisivo dell’abitazione per riflettere metaforicamente lo stato del recluso e la sua reale natura, al di là delle dichiarazioni, al di là dell’orgoglio personale. Là dove scende il fiume di Anthony Mann racconta di un uomo dal passato turbolento ed illegale (James Stewart) che cerca di riscattarsi integrandosi in una comunità; la scena del televisore di Secondo amore di Douglas Sirk allude alle interviste video cui Craxi affida in parallelo le sue memorie non lette attraverso il filtro della prevenzione politica; Le catene della colpa di Jacques Tourneur sono fin troppo indicative già nel titolo italiano ma la storia di un uomo (Robert Mitchum) e del suo inutile tentativo di fuggire da un passato tornato inesorabilmente con le sue minacce, appare ancora più significativa. Un passato che benché privo di un reale giudizio, si diceva, e sebbene filtrato dalla passione cinematografica del regista, è bene non sia minato dai buchi della nostra memoria, malgrado ciò che è scaturito dall’uscita di scena di Craxi ci abbia fatto rimpiangere quella che una volta, con sdegno, veniva chiamata Prima Repubblica.

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema pur essendo cosciente dell'inutilità.

2 Risposte a “Tre film politici. A loro modo.”

  1. Grazie Giampiero.
    Non sapevo di Antonutti, che malinconia… Conservo gelosamente una sua lettera, scritta a mano, avevo provato a portarlo al Valsusa Filmfest per proiettare ‘L’uomo che piantava gli alberi’, che nel primo doppiaggio aveva la sua voce…
    Bello il blog, bravo, un abbraccio!

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