Voi la sentite l’aria di Guerra civile?

Mio padre, quando ero un bambino, faceva un sogno ricorrente: si affacciava alla finestra e vedeva arrivare dei carri armati dell’esercito italiano che occupavano le strade e impedivano alla gente di uscire. Si sa, si sognano le cose più strane, ma se il sogno è ricorrente l’aspetto diventa interessante. Perché, vi direbbero gli psicoanalisti, a quel punto il sogno diventa il rimando a qualcos’altro. Se ve lo dice un freudiano, vi parlerà di impulsi ed emozioni che agiscono nel nostro subconscio. Io, ad esempio, fino ai 25 anni ho sognato almeno due volte a settimana, e qualche volta anche tre, di essere sulla sommità del campanile gotico di una chiesa e di sparare giù alle truppe naziste che mi assediavano. Non ho mai saputo come finisse, non credo benissimo, perché mi svegliavo sempre prima. Sparavo, sparavo e sparavo, sentendo l’angoscia per ‘sti nazisti che non finivano mai. L’ho sognato per quasi quindici anni. Strano forte, eh? Poi, un giorno, ho letto (finalmente, verrebbe da dire) La morte nell’anima di Jean-Paul Sartre e sono rimasto di sasso, perché si concludeva esattamente come il mio sogno: sulla sommità di un campanile, il protagonista, l’insegnante di filosofia Mathieu Delarue, sparava ai nazisti, tentando in questo modo di concedere una via di fuga ai suoi compagni della Resistenza sacrificando se stesso. Occhi spalancati e un brivido lunghissimo su per la schiena. Dopo quel momento, non lo sognai più. Mai più (e La morte nell’anima divenne uno dei cinque libri della mia vita). Non è una balla: questo blog, quasi per dovere morale, di balle non ne dice mai. Però è una delle cose della mia vita che non sono mai riuscito a razionalizzare. Ma torniamo al sogno ricorrente di mio padre, ché lui, la Guerra e i carri armati li aveva visti davvero. Ma soprattutto, eravamo negli anni Settanta e quindi il suo sogno ricorrente poteva avere anche una risposta junghiana ed essere interpretato come il preciso riflesso di un inconscio collettivo. Comunque meno irrazionale del mio. Perché, pur essendo molto complicato far comprendere a chi non li ha vissuti cosa fossero socialmente gli anni Settanta, basterebbe citare il grottesco tentativo di golpe Borghese della notte tra il 7 e l’8 dicembre del ’70, le voci insistenti sulla fanteria americana pronta a invadere le vie d’Italia se le elezioni le avesse vinte il PCI, i Servizi segreti deviati, la Strategia della tensione, per rendere quantomeno una vaga idea di quale fosse l’ansia politica che viveva qualunque cittadino medio, interessato alla politica e per di più di incrollabile fede comunista. Come mio padre, appunto. Che sognava una guerra civile come si sogna di fare sesso o di far gol nella finale di Champions. Sign of the times, indubbiamente.

Ora è difficile che si coltivi lo stesso timore e si arrivi a fare un sogno simile. I fascisti al governo sono macchiette incolte, figli degeneri della commedia all’italiana, che si mettono a nudo a ogni tweet pensando di mostrare la parte migliore. Basterebbe davvero una risata per poterli seppellire, tanto per rimanere in tema di sommovimenti politici. Le paure attualmente sono di certo altre, di sicuro l’escalation tra Est europeo e Medio oriente che potrebbe condurre a uno ZOT! (ricordate i fumetti B.C.? Era l’ira fulminea di Dio che colpiva) senza che uno se ne renda neanche conto.

Non voglio allarmarvi. Vivete ogni giorno come se fosse l’ultimo e sarete a posto. Tutto questo preambolo solo per dirvi che quindi stupisce che nello stesso periodo escano due opere incentrate su un simile problema démodé. Roba appunto di quarant’anni fa che entra in contrasto con l’attuale incoscio collettivo. O forse si tratta davvero di cose attuali, di cui non ci rendiamo perfettamente conto perché riverniciate con una spessa mano di allegoria. Chissà. D’altronde noi l’assalto di Capitol Hill non l’abbiamo vissuto direttamente.

Fatto sta che nel giro di un paio di mesi sono uscite due opere forti, per molti versi anche estreme, che hanno per tema, appunto, una guerra civile. Uno è il romanzo Il canto del profeta di Paul Lynch, che è un capolavoro, ve lo dico subito, con ogni probabilità è uno dei tre libri più belli che abbia letto negli ultimi dieci anni e lo dico con stolida sicurezza, perché non lo penso solo io, visto che ha già vinto il Booker Prize come miglior libro pubblicato nel Regno Unito e in Irlanda (Lynch per di più è irlandese e gli irlandesi li premiano raramente, se non dimostrano di essere bravi quanto Joyce) e se la giocherà al prossimo Salone del libro con altri quattro per lo Strega europeo, che soltanto per il fatto che allarga gli orizzonti, dovrebbe valere di più di quello italiano, di cui ho letto un paio delle opere in lizza (non farò nomi) e – diosantissimo – mi hanno colpito per la sciattezza dello stile, pur andando all’evidente ricerca di nuove vie di linguaggio che siano al passo con l’estemporaneità cui ci obbligano i social. Vabbè.

L’altro è il film che non ti aspetteresti da Alex Garland, conosciuto come autore di (apprezzabile) fantascienza (Ex Machina, Annihilation), e che s’intitola, guarda caso, proprio Civil War. Una visione sconvolgente, non chiarissima sul piano politico, ma il punto non è questo, perché la guerra civile è il contesto schiacciante di una storia che utilizza la violenza degli scontri per parlare di etica professionale. E forse anche di etica dello sguardo, se solo, porca puttana, mi fosse entrata quell’inquadratura iniziale che tutto renderebbe fluido e consequenziale e che invece non c’è, e a questo punto non riesco a decidermi se sia un limite concettuale del film o se io – Madonna Susan Sontag perdonami – abbia in qualche modo forzato l’interpretazione. Tant’è.

Una cosa per volta. Il canto del profeta (la conoscete The Prophet’s Song, facente parte dell’unico album indimenticabile dei Queen, A Night of the Opera? Ecco, canzone stupenda) ci sbatte di netto in un Irlanda distopica in cui un partito parafascista è al governo e inizia a eliminare ogni tipo di opposizione, come successo molte volte nel passato. A me è venuta in mente l’Argentina dei Desaparecidos, a mio padre, che aveva altri incubi, come vi ho detto prima, probabilmente sarebbe venuto in mente il Cile di Pinochet. Lynch, che è quello che conta, pare essersi ispirato alla crisi siriana. A ognuno la sua. Il primo che vediamo portare via è Larry Clark, insegnante e dirigente di un sindacato di categoria, e lasciate perdere il pensiero totalitarista che mi ha sfiorato e di cui mi vergogno (ma solo un po’: credo che comunque sarebbe un modo rapido ed economico per riformare con modalità palingenetica la categoria degli insegnanti in Italia). Larry sparisce. PUF (e non ZOT). E il romanzo si concentra sulla moglie, Eilish, ricercatrice scientifica, che deve destreggiarsi tra la ricerca del marito, quattro figli di tutte le età che, visto il momento personale e politico, vanno variamente fuori di testa, e il violento scontro nelle strade di una Dublino in cui il problema maggiore non è più solo la pioggia. Non voglio dirvi altro, vi ho già detto troppo. Vi aggiungo solo una notazione stilistica e una personale ma generalizzabile, viste le reazioni delle persone a cui, con pervicacia da Testimone di Geova, dal giorno successivo averlo terminato mi sono messo a consigliarlo. Lynch ha una scrittura soffocante, avvolgente come un boa constrictor, senza pause e spazi, senza gli opportuni turni dei dialoghi che invece si snocciolano uno dietro l’altro, in inesauribile continuità e comunque chiarissimi, grazie ai precisi riferimenti. Il tutto potrebbe risultare respingente, all’inizio, ma se entrate nel libro, non vi si scollerà più di dosso. Lo stile incalzante è poi direttamente proporzionale alle reazioni che vi susciterà: io sono arrivato ad un momento nel quale ho dovuto mettere giù il volume perché stavo piangendo senza rendermene conto, in perfetta consonanza con una scena raccapricciante da scorticare la pelle. Lynch ha la rara capacità di entrare dentro al lettore e di rimestarlo sul piano emotivo, perché si serve dello stile per creare turbamento, quando spesso il pericolo è esaltare la forma per compiacersi. La prova empirica e (quasi) inconfutabile di questo – e ci ho pensato tantissimo, ve lo assicuro – è che immaginando la stessa vicenda con uno stile meno denso, tipo i due possibili Strega di cui sopra, avremmo lo stesso una storia dolorosa ma l’incubo lo vedremmo come in televisione, a distanza, come se fosse filtrato, non ne verremmo travolti. Come invece accade.

Il film di Garland non è un film di guerra. Lo è solo nella misura in cui offre un contesto drammatico per allestire la vicenda. Perché non spiega niente, con buona pace della critica americana timorosa di farsi illustrare la propria politica da un inglese: cita le due fazioni in lotta (il Western Front contro le forze governative), non fornisce le ideologie a confronto se non qualche sporadico commento sul fascismo del Presidente (ma negli atteggiamenti ferini anche la parte avversa non è da meno), non dà conto delle origini del conflitto, al di là di qualche riferimento al secessionismo del Fronte occidentale. Non lo spiega perché fondamentalmente non gliene frega niente delle ragioni di nessuno. Il problema non è lì. Il problema riguarda soltanto chi documenta lo stato di guerra. La deontologia dei fotoreporter a caccia del conflitto come se fosse una dose di eccitanti per tenersi costantemente su. E la loro eventuale sensibilità. Mettendoli al seguito dei commando e al centro delle battaglie cruente, difesi solo da una giacca d’emergenza, un giubbotto antiproiettile, un caschetto e una dose di buona sorte, Garland li fa diventare un altro battaglione, meno violento ma talvolta altrettanto spietato, fondando la metonimia sulla sovrapposizione semantica della parola «shot»: sparo, sì, ma anche foto, istantanea.

Civil War è come se Salvador di Oliver Stone (o Un anno vissuto pericolosamente di Weir o Sotto tiro di Spottiswoode o anche Urla del silenzio di Joffé, ce ne sono un sacco: scegliete voi) si fosse ibridato con The Last of Us: Garland ha una visione narrativa survivalista (sua la sceneggiatura di 28 giorni dopo di Boyle) e la sua guerra è anche un film horror che si nutre della presenza costante della morte sotto forma di epidemia di violenza. Non esplorare le ragioni di una parte o dell’altra è la precisa scelta per illustrare uno scontro che ha la veemenza del virus incontrollabile che non si ferma davanti a presunte ragioni di legittimità politica. Il centro non sono i morti, ossia i caduti di ogni guerra, ma — mi scuserete la capziosità — proprio la morte, intesa come presenza incombente e concetto funzionale a una precisa spettacolarizzazione, a quell’istante in cui si cattura la sostanza ineffabile e immateriale tra ciò che era e ciò che non è più. I celebri 21 grammi di cui parlava Iñárritu. La guerra civile di Garland supera l’accezione di conflitto interno alla nazione per alludere a uno scontro morale (la civiltà della guerra) a causa del quale si sposta il complesso limite del visibile, del raccontabile e dello sfruttabile. I fotoreporter di Civil War sono avvoltoi iperadrenalinici che svolazzano qua e là alla ricerca della carogna che gli farà vincere un Pulitzer. Non uccidono ma si servono della morte. Non documentano, ambiscono alla gloria personale. Sono nella guerra per una necessità intima, non perché professionisti pagati per farlo. Hanno l’ossessione paradossale di fissare in immagini immortali ciò che sta per morire. Ma nessuno giurerebbe che sarebbero pronti a evitare una morte certa se ciò implicasse di privarsi di uno scatto fondamentale (dilemma etico noto fin dai tempi de L’asso nella manica, film immenso nel suo cinismo).

La violenza si sostanzia negli scatti che la riprendono, in una dialettica tra le immagini in continuità del film e le fotografie che la isolano, di fatto certificandola. Più che una testimonianza è la ricerca di una performance, indifferente a tutto. E che ha la morte come obiettivo. E nell’obiettivo. I commando uccidono, i fotoreporter bloccano le vittime nel loro mirino rendendo in qualche modo eterna la morte e confermando ciò che sempre la Sontag diceva a questo proposito, ossia che “la fotografia è l’inventario della mortalità”.

Guardando bene, Civil War è un percorso di (de)formazione. Quello di Jessie (Cailee Spaeny: l’abbiamo citata qualche tempo fa a proposito di Priscilla), un percorso volendo non molto dissimile da quello di Anne Baxter in Eva contro Eva: ammirazione smodata per l’idolo e poi progressiva parabola di sostituzione. In quest’ottica, e senza dirvi molto di più (ma contando sul fatto che fin qua difficilmente ci arriverete), ritratto quanto scritto prima dopo averci dormito sopra: non si tratta di etica dello sguardo, per questo quella benedetta inquadratura che mi aspettavo non c’era, ma del cinico riconoscimento di una logica spietata, che s’impossessa della guerra per speculare sul protagonismo assoluto dell’immagine. È una storia di vampiri che persegue logiche terrificanti, in cui il corpo è esibito nella sua tragica spettacolarizzazione. È una critica al giornalismo d’assalto? Forse. Io la vedo più come la trasformazione mostruosa dell’umanità quando si trova in condizioni estreme.

Chiudo con una segnalazione. Paola Brunetta, storica firma di «Cineforum» (e mia amica, anche se non fa curriculum), ha raccolto più di cento sue recensioni scritte nel corso degli anni e le ha pubblicate in un bel volumone edito da Programma, giovane casa editrice trevigiana. Gli scritti sono divisi in sette gruppi tematici e comprendono un ampio ventaglio di tempo, dal 2008 a ieri, praticamente. Dentro ci sono titoli diversissimi tra loro che mostrano il grande eclettismo di un’ottima critica cinematografica che non ha mai abbandonato l’entusiasmo dello spettatore (beata lei). Si può leggere in tutti i modi: di seguito, un pezzo qua e un pezzo là, uno oggi e uno domani, prima gli anni pari, poi quelli dispari, al contrario o solo soppesandolo in mano (ha un bel peso). Io ve l’ho detto, vedete voi.

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema pur essendo cosciente dell'inutilità.

4 Risposte a “Voi la sentite l’aria di Guerra civile?”

  1. o se non sei bravo come Cillian Murphy (questo è il pensiero riflesso che è scattato in mente mentre leggevo le tue parole).
    comunque il film devo ancora vederlo.
    il canto del profeta lo sto iniziando (e già si è insinuato quel qualcosa che è entrato attraverso la porta di casa di Eilish). l’ho regalato a un’ amica circa un mese fa in inglese (perché lei può farlo). tu l’hai letto in italiano o in originale?

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