17 anni dopo, con un certo timore

Cimino in una meritata pausa di un film già in ritardo di quattro mesi. Christopher Walken aspetta

[Disclaimer: è un pezzo lungo, lungo come I Cancelli del cielo. Talmente lungo che l’ho riletto per darvi un minutaggio certo e mi sono perso. Per cui sappiate che è lungo, vi avviso. Di più non so dirvi. Prendetevi il giusto tempo, serializzatelo, fate voi]

Come dicevano i Pink Floyd nelle prime battute di The Gnome, «I Want to tell you a story». Quella che segue è una storia, sì personale, eppure, nonostante l’argomento, non si tratta di autopromozione. Forse, volendo, solo di indiretta segnalazione. Questa è la storia di una lunga, forse lunghissima procrastinazione e di eventi bizzarri, che qualcuno potrà considerare emanatori di sfiga, al punto da dimenarsi in scattanti manovre apotropaiche, secondo le proprie abitudini personali e il livello di evoluzione raggiunto, non appena si saprà che si parlerà di Michael Cimino.

Orbene, se qualcuno facesse fatica a ricordare chi è Michael Cimino, gli si potrebbe rinfrescare la memoria dicendogli che è il regista de Il cacciatore, quel film in cui Robert De Niro urla digrignando i denti mentre è obbligato a puntarsi una pistola alla tempia, circondato da vietcong che gli urlano «Mau, Didi Mau!» e lo prendono a schiaffi e ti fanno venire un nervoso anche se negli anni Settanta solidarizzavi con il glorioso popolo vietnamita e speravi che facesse il culo all’invasore Yankee.

Il problema è che, eccettuata quell’immagine, anche de Il cacciatore nessuno ricorda altro. E Il cacciatore è stato il suo più grande successo. Anzi, l’unico. L’illusione che l’imminente decennio Ottanta potesse essere anche suo, oltre che di Scorsese, Coppola e soprattutto di Spielberg, che gli anni Ottanta se li sarebbe letteralmente mangiati. E invece no. Dopo Il cacciatore e i cinque Oscar vinti, Cimino cade rovinosamente. I cancelli del cielo è ricordato come IL FALLIMENTO nel cinema moderno e se ti cuci addosso quest’etichetta nel cinema americano, tu es foutu. La fine di Cimino si è prolungata per anni e si è arricchita di polemiche a ogni film, come se ci fosse una specie di gioco perverso della critica nel rendergli ancora più doloroso l’insuccesso: comunista! (per I cancelli del cielo, ma dopo avergli dato del fascista per Il cacciatore; in quel caso però fu perdonato perché l’incasso fu di oltre tre volte la spesa per produrlo); razzista! (per L’anno del dragone), revisionista! (per Il siciliano), esaltatore della violenza domestica! (per Ore disperate), fricchettone new age! (per Verso il sole). Lo schema è sempre stato lo stesso: clamore per il suo ritorno, esaltazione della critica francese (che segue percorsi tutti suoi), attacco di quella americana, indifferenza del pubblico, conseguente emarginazione. Fino a quando nessuno gli ha più fatto fare film. The End, malgrado coltivasse da anni il sogno di una trasposizione de La condizione umana di Malraux. Te lo diceva, gli avresti visto brillare gli occhi, se solo si fosse tolto quelle lenti scure che ormai non toglieva mai, ci credeva veramente ma, come il resto dei suoi progetti, s’è perso nel nulla.

Non ho una particolare predilezione per quelli che con termine squallidamente darwinista sono definiti “perdenti” (tifo Juve, come potrei? Al massimo i perdenti mi fanno tenerezza. Schifo, se sono arroganti, pretestuosi e gridano perennemente al complotto), però è anche vero che in vita mia non ho mai vinto un’elezione politica e adoro per la loro complessità psicologica i losers che da Hemingway in avanti hanno caratterizzato letteratura e cinema americani. Fatto sta che io Cimino l’ho sempre adorato. Sempre, ma proprio sempre! Anche quando lo accusavano di essere un fascista, io che pago ogni anno 16 euro per rinnovare la tessera dell’ANPI! E anche perché penso che I cancelli del cielo sia uno dei tre film più belli della storia del cinema (con Intrigo internazionale e Otto e mezzo). Quindi, con tutti i libri superflui che ho scritto, ne ho voluto fare uno per amore. Quasi glielo dovessi. E difatti è così. Perché il libro, finalmente, uscirà nei prossimi giorni, chiudendo così un cerchio iniziato nel 2003. L’amore, si sa, è opera di sfiancamento ma con Cimino si è un tantino esagerato, perché tutto è iniziato ben 17 anni fa. Dopo il pisciare dalla finestra per spegnere un incendio nel cuore della notte, potrebbe essere tranquillamente la quarta ipotesi per far perdurare l’amore proposta da Tom Robbins in quel piccolo classico weird che è Natura morta con picchio. Tradotto nel gergo editoriale, se un libro attende 17 anni per essere pubblicato e non sei Manzoni, altro bel personaggetto sui cui incombeva una rogna mefitica, significa che, a lume di naso, non riscuote nessun’urgenza editoriale perché il soggetto trattato non è ritenuto degno d’interesse. Tanto più che, per amor del paradosso, avrebbe avuto più senso scrivere un volume innovativo sull’Impero romano confidando in nuove scoperte archeologiche, che su Cimino, vista la stagnazione della sua carriera praticamente dal 1996, quando uscì Verso il sole e tutti ne salutarono il ritorno, sfiorò la vittoria al Festival di Cannes che ne avrebbe rilanciato la carriera a 57 anni, ovviamente non vi riuscì e la sua carriera, già profondamente minata, finì lì. Punto. Una pietra tombale vent’anni prima del tempo.

Verso il sole, l’abbacinante miraggio di un rilancio di carriera

Ma andiamo con ordine, senza farla troppo lunga. Per una serie di casuali circostanze, durante il 2002, vengo chiamato da una casa editrice milanese dal nome di un roditore per integrare con fotografie (pessime, piccole, quasi invisibili, ma quasi vent’anni fa sembrava un’innovazione da urlo per gli studi di cinema) la monografia di François Truffaut, firmata da Alberto Barbera e Umberto Mosca. All’epoca, la casa editrice del roditore è all’avanguardia, se vuoi scrivere una monografia su un autore devi passare necessariamente da loro ed è la ragione per cui accetto l’incarico, malgrado abbia già pubblicato qualcosina, tra cui il mio libro che (ancora adesso) ha venduto di più, e selezionare fotogrammi sarebbe un passo indietro. Lo faccio perché I cancelli del cielo mi ossessiona da quando ho visto la versione integrale di tre ore e trentanove minuti e la mia idea di cinema non è più la stessa: voglio rendere omaggio a Cimino con un libro. Forse, l’idea è di legare il mio nome al suo, ma per questo ci vorrebbe uno psicologo e poi, in realtà, è ovvio, si scrive sempre per megalomania, mica per urgenze stilistiche o comunicative. E comunque anche questa è una forma d’amore, solo travestita da principio di ascensione verso l’oggetto di culto. Ma proseguiamo. Per un lavoro così assurdo mi garantiscono anche dei soldi, altro motivo per cui accetto, ma hanno fretta, per cui mi reco alla Fondazione Alasca di Bergamo per fare una ricerca iconografica, e non nutro alcun dubbio sul contratto che stanno approntando e che troverò una volta tornato a casa, dicono. Il contratto sarà stato sicuramente molto cavilloso, perché ancor oggi, a casa, non è arrivato, ma io non presso, primo, perché ho sempre trovato cafone parlare di soldi (che è un po’ il complesso di chi si è raffinato dopo un’infanzia proletaria); secondo, sono già stato fottuto due anni prima da una casa editrice torinese dal nome di una ridente località sul lago di Costanza (e si sa, come dicevano i CCCP, “è la prima volta che fa sempre male”) e last but not least, VOGLIO SCRIVERE LA MONOGRAFIA. E siccome è su Cimino, che è pur sempre l’unico nome che manchi nella collana, formata da 236 titoli, bisogna sempre andarci moooolto cauti. Ma se su 236 titoli della collana Cimino non c’è, un motivo ci sarà pure. Infatti me ne accorgo, ma non subito. Tento un abboccamento, la casa editrice si dimostra possibilista, io sgrano gli occhi e mi metto al lavoro, anche se il contratto del precedente lavoro non arriva. Vogliono un capitolo e io lo scrivo di getto. Glielo mando. Silenzio. È lungo: ci staranno pensando nella stanza a fianco a quella in cui stanno preparando il contratto. Mi capita anche di incrociare Cimino, quello vero, venuto a Torino a presentare al Museo del cinema la sua versione integrale, in sindrome acetica, de I cancelli del cielo, non ancora restaurata (lo sarà, da Criterion, e sarà un’autentica festa per gli occhi). Avrà accanto durante la presentazione Alberto Barbera, che farà ammenda davanti al pubblico della sala del cinema Massimo per averlo stroncato nel 1980. Voglio intervistarlo, voglio conoscerlo. E lo faccio. È il 20 febbraio 2003. Non iniziamo benissimo: comincio con una domanda sulle strutture temporali dei suoi film, fatte a blocchi conchiusi, così diverse da chiunque altro negli anni Settanta e spesso anche dopo, prima che il postmoderno polverizzasse tutto. Gli chiedo come mai. Lui risponde secco «Why not?» e si ferma. Io stringo le chiappe: «cazzo, mo’ si alza e se ne va!». E invece, dopo una pausa in cui mi guarda con gli occhiali da sole perennemente inforcati e io stringo ancora più le chiappe, come Janet Leigh quando il poliziotto bussava al finestrino della sua auto in Psycho, continua e spiega.

Lo sguardo di Cimino alla mia prima domanda

E spiega, spiega, spiega, spiega, spiega, spiega. Non si ferma, va avanti imperterrito, mostrando esplicitamente la volontà di difendere la sua carriera da tutte le critiche ingiuste e le calunnie ricevute. Racconta tutto, con un garbo e una gentilezza che mi fanno rilassare le chiappe, e quando interviene l’ufficio stampa del Museo a richiamarlo all’ordine, perché il tempo è scaduto, lui mi guarda, perlomeno penso che mi guardi, viste le lenti scure, e mi dice con gesto di noncuranza un «Don’t Worry» che annulla la tensione del «Why not» precedente e continua imperterrito. Ho l’intervista (che ora compare nel volume appena uscito), ma per farvi capire l’era geologica, non ho un selfie, perché non si facevano ancora. Ho però la registrazione su musicassetta TDK (!!!) che conservo come una reliquia. Ho l’intervista, dicevo, e non è una carta da poco da giocarsi con la casa editrice. Il silenzio dopo un bel po’ si rompe e finalmente rispondono, con quella gentilezza ipocrita che prelude sempre a un brusco diniego. In soldoni: si sono chiesti se Cimino valga il rischio di un volume e la risposta ovviamente è no. Nel frattempo non è che sia arrivato il contratto del precedente lavoro, ragion per cui, incapace di dimostrare alcunché, è anche difficile cercare di ottenere quanto dovuto. E così, sentendomi come Fred MacMurray all’inizio de La fiamma del peccato (vedi qua, solo i primi 19 secondi), stringo per l’ultima volta le chiappe, stavolta avverto qualcosa all’interno ma cerco di dimenticare.

La carriera di Cimino resta immobile. La gente si dimentica che sia esistito. Io passo oltre, inevitabilmente, ma la notizia della sua morte, il 2 luglio del 2016, ovviamente mi amareggia. E un po’ mi indigna, perché, come spesso capita, in quel momento ne parlano tutti. TUTTI. Ognuno ha il suo ricordo e nell’era furoreggiante di internet ognuno ci tiene a rivelarlo (e anche quello che state leggendo ne è un fulgido esempio). Solo che in questi articoli fotocopia che dicono tutti la stessa cosa, pentendosi di non averla detta vent’anni prima, non mi ritrovo. E allora quelle stesse chiappe di cui sopra si rianimano. Il libro torna ad affacciarsi come ipotesi, incazzandomi anche con me stesso per averla accantonata per troppo tempo. Sono passati 13 anni e siccome per me sono stati piuttosto pieni ho la presunzione di pensare che stavolta un libro su Cimino sia, se non proprio necessario, perlomeno opportuno. Contatto una casa editrice romana ancora interessata alle monografie, visto che quelli del roditore sono nel frattempo scoppiati, forse discutendo di contratti, invio la proposta e totalmente incredulo, visti i tempi vissuti in precedenza, leggo la risposta del direttore della collana soli due giorni dopo. Non solo la proposta è accettata, ma anzi viene raddoppiata: su proposta dello stesso editore, al libro su Cimino se ne affianca uno sui soli Cancelli del cielo per una collana appena nata dedicata ai “film della nostra vita”. Il 16 luglio firmo il doppio contratto. That’s incredible, solo due settimane dopo.

Un intimo Last Waltz, senza la Band e senza Scorsese

Il volumetto su I cancelli del cielo ha la precedenza ed è presto fatto: esce nel settembre del 2017. Per la fine di quello stesso settembre, 2017, finisco anche di scrivere il libro sull’intera opera di Cimino, partendo da quel primo capitolo di 17 anni fa, riveduto e adeguato a un linguaggio e a uno stile che renda conto degli anni trascorsi e magari elimini qualche ingenuità di gioventù. Dovrebbe prendere il nome previsto dalla collana Il cinema di Michael Cimino ma dal momento della consegna inizia una vicenda biblica. Forse, dev’essere l’insistenza sul 17. O forse è il destino di qualunque cosa sia legata a Cimino. Il libro dovrebbe uscire nel settembre del 2018, ma è la ricorrenza dei cent’anni dalla nascita di Ingmar Bergman, per cui, noblesse oblige, esce il volume su di lui e sorpassa Cimino. A quel punto il libro slitta alla primavera del 2019 e sembra proprio che ormai sia arrivato il momento, tanto più che correggo anche le bozze e giro una breve presentazione postata su YouTube. Ma passa anche la primavera. Qualcuno mi fa notare che su Amazon è preannunciato con la data di uscita del 1° gennaio 2030: lo rassicuro dicendo che è il modo che ha Amazon di indicare i libri di cui non si ha ancora una data certa per la messa in commercio, ma faccio mentalmente il calcolo su quanti anni avrò nel 2030 e statisticamente quante possibilità abbia di essere ancora vivo. Passa anche l’estate. Chi mi aveva promesso una recensione e chi una presentazione comincia a pensare di aver dato fiducia a un millantatore. Ai primi di settembre mi comunicano dalla casa editrice che è previsto un ritardo di qualche settimana ancora, a causa, questa volta, delle deludenti prenotazioni da parte dei librai, che hanno lo stesso fiuto dei produttori hollywoodiani, aggiungo io, e sanno perfettamente quanto Cimino promani lezzo di fallimento. Le poche settimane s’espandono a tutto l’autunno e debordano fino alla fine dell’inverno. Finalmente, nella primavera del 2020 il libro è pronto a uscire. Ma il 9 marzo, nel disastro provocato dal Covid-19, le librerie chiudono per il lockdown e Cimino è rimandato a data da definirsi (qua per capire meglio). Incazzarsi è davvero ipotesi fuori luogo visto quello che sta accadendo fuori dalle proprie abitazioni. Fuck the Book, ci sono cose decisamente più importanti. Che tutto si risolva, che le persone a cui tieni stiano bene, che stiano bene anche tutti gli altri, non voglio certo fare discriminazioni, che il clima plumbeo del primo mese e mezzo si sciolga e che, alla fine, si esca finalmente dall’apnea. Passo l’estate a scrivere un altro libro che dovrebbe uscire a gennaio o febbraio (sì, è certo: Cimino stavolta non c’entra, quindi sarà puntuale) e al Fuckin’ Book non penso più. Ad ognuno i suoi Cancelli del cielo.

Ma.

Quando ormai stavo perfezionando con l’altra casa editrice la consegna del lavoro appena terminato, il 2 ottobre giunge assolutamente inattesa un’e-mail che m’informa dell’imminente uscita del libro. Salvo nuovo lockdown, aggiungono con un’ironia beffarda. Mi gratto istantaneamente. E a lungo. Lo stesso 2 ottobre cominciano a crescere i contagi. Il 7 ottobre Il Consiglio dei ministri delibera la proroga dello stato di emergenza fino al 31 gennaio 2021. Il 13 ottobre arriva il DPCM che obbliga all’uso delle mascherine all’aperto. Il 18 ottobre ne segue un altro, che limita l’orario d’apertura dei locali. I contagi aumentano in maniera preoccupante, il 24 ottobre arriva quello che chiude i teatri, i cinema, i musei e vieta le attività sportive dilettantistiche. Ci siamo, penso: il potere del libro. A data da definirsi anche stavolta. Il 29 ottobre, invece, mi scrivono dalla distribuzione per avvisarmi che stanno inviando le copie di spettanza. A questo punto tremo: cosa può ancora succedere se si sfida così tanto la sorte? È il caso di fermare tutto, vista l’emergenza, nel timore che la situazione possa diventare incontrollabile? Il 3 novembre l’Italia è divisa in gradazioni di rosso, arancione e giallo: la mia regione è ovviamente rossa. Comincio a temere per l’incolumità del corriere quando porterà materialmente in mano i libri per la consegna, speriamo in bene. Quello stesso giorno mi arrivano le copie a casa. Vado a prendere mio figlio a scuola e guardo più volte la strada mentre la attraverso, malgrado l’abbia attraversata migliaia di volte. Torno a casa, tiro un respiro di sollievo. Mi siedo, non mi alzo più. Non si sa mai.

Ufficialmente il libro sarà in vendita il 12 novembre. Nel dubbio, vi saluto adesso.

La reazione terrorizzata dell’autore quando il libro è uscito dal pacco

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema pur essendo cosciente dell'inutilità.