Il cinema a portata di clic

Le sale virtuali del 38° Torino Film Festival, tutte a portata di mouse

Qualche riflessione a margine del Torino Film Festival appena concluso. Non tanto sul Festival, quanto sulla modalità di ricezione cinematografica durante la seconda ondata del coronavirus.

È appena terminato il Torino Film Festival. Il premio per il miglior film è andato a Botox, che rinverdisce la tradizione torinese iranian friendly. È un buon film per essere un’opera prima (di Kaveh Mazaheri), tutto giocato sul labile confine tra cruda realtà e sua distorsione allucinata ed in questo rappresenta una novità rispetto alle consuetudini iraniane, ma non è del Festival che vi voglio parlare, quanto della modalità con cui si è svolto. Interamente online.

Una iattura per i veri amanti del cinema. La magia del grande schermo, il ronzio del proiettore che si aziona, il fascio di luce che taglia la lunghezza della sala, la poesia dei paesaggi in campo lungo…Eh! Niente di tutto questo. Ma uno schermo del computer (o del tablet) oppure una televisione via Chromecast o l’AppleTV via AirPlay per quelli che sono un passo avanti rispetto ai tempi. Orrore! Orrore?

Ma no. Piccola premessa, quasi una bestemmia per chi si occupa di cinema anche se io non ne ho mai fatto mistero. L’ho sempre detto, nessuno mi ha mai creduto ma qui lo ammetto pubblicamente: ODIO I FESTIVAL. Li odio perché fondamentalmente non si fa altro che vedere film. Bravo, direte voi, e che altro vuoi fare? Ma certo, è ovvio. Il problema è che vedere film a ripetizione mi ANNOIA. Se vedessi cinque capolavori al giorno, se ne potrebbe parlare. Il problema è che nei festival passi dal film cinese con il piano-sequenza di venti minuti con macchina da presa fissa alla pellicola lituana che ha nel lirismo del paesaggio il protagonista e tra l’uno e l’altro ti capita di vedere l’opera seconda di un regista del Kentucky che ci racconta la vita piatta della provincia alle pendici degli Appalachi e ti chiedi per quale caspita di motivo si dovrebbe celebrare il Mito americano se l’America è anche quel mortorio lì ecc. La verità è che la vita è troppo breve per vedere film di merda, come diceva in modo più elegante la pubblicità del sito di video streaming Mubi. Inoltre, le pause tra un film e l’altro sono occupate dall’incontro con gente che si occupa anch’essa di cinema e che, ovviamente, ti parla di cinema. E io non sono così cinefilo da voler parlare di cinema fra un film e l’altro. Sono una persona semplice, preferisco parlare d’altro piuttosto che discutere del senso di un film sul cui senso mi sono già interrogato durante.

Ricordo tuttavia proiezioni di film del Kèrala alla Mostra del nuovo cinema di Pesaro saltate integralmente perché impegnato in cene infinite da Sante (Via Giovanni Bovio, 27), insieme ad altre persone che, come me (fortunatamente capita), volevano parlare d’altro e apprezzavano la buona cucina, il vino sfuso a consumo e la marea di minchiate che venivano fuori come conseguenza. Ricordo che il mio programma di ogni Mostra di Venezia era sempre privo delle proiezioni mattutine, perché facendo tardi la sera mi sarei addormentato in sala, per cui tanto valeva continuare a dormire in un comodo letto. E tutto questo senza che abbia mai avuto un solo rimpianto o che abbia avvertito il film saltato come una lacuna incolmabile nella mia vita. Lo diceva anche Gianni Rondolino durante le lezioni: ai festival i film si vedono male, lui che aveva fondato il Torino Film Festival quando ancora si chiamava Cinema giovani, suscitando in me, nei miei anni furenti da studente cinebulimico, un certo sconcerto per quella che reputavo nient’altro che una divertita provocazione per sgretolare l’integralismo che si avvertiva nell’aula 36 di Palazzo nuovo. E invece aveva dannatamente ragione. Nei festival i film non decantano. Pensi a uno, all’impressione che ti ha fatto, cerchi di far quadrare le tue ipotesi interpretative mentre sei già in coda per vederne un altro, che ti darà un’altra impressione su cui far quadrare altre ipotesi interpretative mentre sei in coda per vederne ancora un altro. E così via. Per più giorni. Una fatica, non un piacere.

Per questo e altri motivi non frequento più i festival. Mi concedo ancora solo quello di Torino, per una sorta di affetto nostalgico che mi riporta indietro di quasi trent’anni e perché, alla fine, non puoi proprio disinteressarti di tutto tutto, soprattutto se è di fianco a casa tua.

Uno penserebbe che un festival a casa propria possa essere più comodo. E invece no. Lavori, hai incombenze familiari, perché non è vero che quando c’è un festival la vita si ferma, anche se ai cinefili talebani piace l’idea di vivere in una bolla fatta di nitrato di cellulosa e codici binari, vertiginosi travelling e intensi primi piani sognanti. Ma figurati. Parti da casa, ti imbibisci nel traffico cittadino (non è Napoli, non è Roma, non è Milano, non è neanche Kinshasa ma il traffico torinese, per uno privo di pazienza, è pur sempre un enorme rompimento di coglioni) e poi, una volta arrivato, giri come Gigi la trottola per cercare un parcheggio e magari mancano tre minuti all’inizio del film che devi necessariamente vedere, perché devi scrivere la recensione, ma la replica è l’indomani alle 9 e mezza, mentre starai spiegando per la diciottesima volta la differenza tra predicato verbale e predicato nominale e no, certo che la replica non la puoi vedere, ma tu devi scrivere l’articolo e il parcheggio continua a non uscire anche se sei al sesto giro dell’isolato e a un certo punto, ECCOLO! Bastardo, figlio di puttana me l’ha fregato quello stronzo pelato, e poco importa che sei pelato pure tu, perché in quel momento negheresti la tua stessa esistenza per ‘sto cazzo di parcheggio che non viene mai fuori, porcammerda! Una volta parcheggiato, con un paio di madonne che ancora aleggiano su di te, ti affretti per arrivare alla sala, davanti alla quale, se hai fatto in tempo, ti immergerai in una coda di un centinaio di persone che consultano programmi alla ricerca della perla di una vita (che non troveranno), per poi, fi-nal-men-te, prendere posto. All’uscita puoi scegliere, se ripartire da capo ma senza cercare nuovamente parcheggio oppure riprendere la macchina, correre a casa e scrivere il pezzo che nell’era di internet esce il giorno dopo, con ritmi da quotidiano.

Quest’anno, invece, tutto a portata di clic. La macchina è ben parcheggiata sotto casa e lì è rimasta, ad uso dei volatili che intendono alleggerire il loro volo. Ogni film era disponibile per 48 ore sul portale di MyMovies dalle 14 del giorno precedente la proiezione per il pubblico, per cui addio corse, addio traffico e semafori, addio ricerca spasmodica del parcheggio, addio al turpiloquio nell’abitacolo della propria auto, addio alle code davanti alla sala, addio ai ritorni convulsi a casa per scrivere il pezzo.

Clic.

Scatto soave che dispiega infiniti universi in foggia di finestrella, come diceva il sommo. Un semplice rilievo aritmetico: l’anno scorso i film che riuscii a vedere furono 11, l’anno prima solo 8 e in entrambi i casi scrissi un solo articolo panoramico sulla sezione che seguivo.  Quest’anno, con un programma notevolmente ridotto a causa del Covid, quindi dalle scelte quasi obbligate, di film ne ho visti circa una ventina, scrivendo tre articoli in tempo (quasi) reale. E questo senza aver smesso di dormire, di lavorare, di pranzare o di cenare, ritagliandomi il tempo per vedere la Juve due volte (una delle quali non meritava di sottrarre il tempo neanche al peggior film namibiano) e non dimenticando mai di santificare i fisiologici bisogni quotidiani.

Io alla fine del 38° Torino Film Festival

Sì, sì, mi rendo conto. Che amante del cinema sei se abdichi al grande schermo per inseguire la tua comodità? Pessimo, indubbiamente. E agli esercenti non ci pensi? Se fosse per te, potrebbero tutti chiudere. E come fai ad apprezzare un’inquadratura in profondità di campo nello schermo della televisione o, peggio, sul computer? Eh? EH?! Me lo dici?

Tutto spudoratamente vero.

Sia detto en passant, se il criterio fosse la simpatia degli esercenti, Torino, tranne un paio di esempi virtuosi, meriterebbe la serrata e comunque, nei pochi casi in cui sono tornato al cinema tra il lockdown e la zona rossa, il mio contributo alla causa degli esercenti l’ho dato, ma siccome, guardando bene bene, ma proprio scrutandomi attentamente, in fondo sono un signore, non dirò né come né perché.

Il campo lungo nel televisore: oddìo, a pensarci bene il mio amore per certo cinema lo devo tendenzialmente a due file di comanche che dalle colline tentavano di intrappolare la banda capeggiata da John Wayne in Sentieri selvaggi e anche al puntino nero nel deserto che s’ingrandiva pian piano, ma pianissimo, in mezzo alla canicola, e solo dopo esasperanti secondi si trasformava in Omar Sharif pronto a sparare alla guida di Peter O’Toole perché aveva bevuto dal suo pozzo («anch’io ci ho bevuto», avrebbe detto O’Toole nei panni di Lawrence d’Arabia, «Tu puoi farlo», gli avrebbe risposto Sharif e sarebbe stato il mio primo incontro con le ingiustizie del mondo). E sia i comanche sulle alture, sia il puntino Omar Sharif li ho visti, per la prima volta, su uno schermo televisivo a tubo catodico e per di più in bianco e nero, privi di quel Technicolor che ne rappresentava il valore aggiunto. E delle dimensioni non parliamo nemmeno. Eppure quelle inquadrature parevano ugualmente magiche, immense, pronte a far detonare l’immaginazione di un bambino che vedeva il cinema nitidamente anche senza il 4k e con dei colori fantastici, talmente meravigliosi che quando poi li vide davvero in sala li reputò addirittura smorti.

I comanche osservano il distanziamento sociale prima di sferrare l’attacco
Omar Sharif venti minuti prima di giungere al pozzo

Qualcuno potrà pensare che io stia cercando faticosamente una legittimazione alla mia accidia. Infatti è proprio così. Però, avanzando solo per passaggi consequenziali, se ai festival i film si vedono male, se la stragrande maggioranza dei film presentati, anche senza essere veggenti, non saranno mai i nuovi Sentieri selvaggi o Lawrence d’Arabia, se le emozioni forti spesso non dipendono dalla grandezza ma dall’intensità dell’immersione (sto parlando sempre di cinema), se la vita è troppo breve for bad movies, come dice Mubi, perché non economizzare sull’esistenza evitando stress, tensioni, tempi morti, come nella migliore tradizione del cinema classico americano e magari vedere un paio di film in più, coltivando pur sempre la speranza di vederne uno, finalmente, che lasci davvero il segno?

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema pur essendo cosciente dell'inutilità.