Diamanti grezzi: lo schlemiel alla conquista del mondo

È distribuito da Netflix, ma se pensate di potervi adagiare pesantemente sul divano e rilassarvi per vederlo dopo una dura giornata di lavoro, NON LO FATE ASSOLUTAMENTE! Piuttosto fate straordinario.

Perché Diamanti grezzi è un film ansiogeno. Non tanto per la materia trattata, per la tensione prodotta intorno a un opale iridescente che diventa oggetto del desiderio diretto (per chi lo vuole possedere) e indiretto (per chi vuole mettere le mani sui soldi che potrebbe rendere), per il peso di una scommessa all in, dentro o fuori, che inevitabilmente non può che rendere partecipi. Diamanti grezzi è un film asmatico a causa del ritmo adottato, sempre accelerato, sovrapposto, sfibrante, sostenuto dalle cadenze di un montaggio che pare disfatto, fuori raccordo, volutamente febbrile, sempre sul corpo dei personaggi, con frantumi di inquadrature resi quasi abbaglianti dalle illuminazioni al neon degli interni, confuso in un ammasso di figure che s’incrociano, si scontrano, praticamente rimbalzano l’una contro l’altra, spesso l’una sull’altra. Il tutto legato insieme da dialoghi che circolano, si accavallano, quasi si elidono a vicenda, in un’attualizzazione dell’overlapping proprio della commedia classica hollywoodiana, anche se qua di comico c’è proprio poco.

C’è la voracità di una città, New York, vista soprattutto in luoghi soffocanti, spazi in cui si crea, scambia, permuta, perde e moltiplica il denaro, come se l’esterno fosse soltanto un connettore di superfici dedite al guadagno o alla speranza di realizzarlo. C’è ovviamente il sogno, l’illusione di cambiare il proprio stato, di scoprire quella carta vincente che prima o poi farà svoltare, perché si deve svoltare, non si può restare indietro, visto che ogni singola azione è dettata non dall’obiettivo fissato ma da chi sta dietro e pressa, preme in tutti i momenti utili per possedere, sfruttare, annullare per poi avvicendare.

In questa macina oppressiva, costantemente sopraritmo, slabbrata e scurrile, i golden boys del cinema indipendente americano, i fratelli Safdie, Benny & Josh, un mix di ebraismo siriano e russo il loro, aggiornano la figura dello Schlemiel, il protagonista sfortunato, inadeguato ad affrontare la struttura della società e per questo destinato a beffarda sconfitta, personaggio particolarmente caro alla cultura yiddish. Adam Sandler è il respiro (tachicardico) di tutta l’operazione, con l’avorio della sua dentatura irrazionalmente sempre in mostra, l’oralità traboccante e la fiducia persistente, mentre pregusta il momento in cui il suo commercio di diamanti si libererà finalmente dai debiti acquisiti nel tempo e lo porterà alla ricchezza. Quella vera. Che vive di sogni, di progettazioni cervellotiche per raggiungere un proposito rincorso con una tenacia disposta a mettere a repentaglio ogni altro aspetto personale della propria vita.

Un film che disturba, trascina e illude, che penetra letteralmente nei corpi per poi abbandonarli alla fine, librandosi verso un infinito dove la fragilità dei sogni e delle aspirazioni si ammanta di un cosmico nulla.

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema pur essendo cosciente dell'inutilità.