Oscar e credibilità, cercando di essere Nostradamus

Mi gioco la credibilità, però è più forte di me. Devo.

Notte degli Oscar 2020, 9 febbraio. Stanotte, in Italia. Proviamo a immaginare i premi più importanti.

Occhio. Anche se vi capitasse di leggere questa pagina lunedì, che una cosa sia chiara: questa non è una fredda cronaca dei vincitori, è una precognizione.

Miglior film. Negli ultimi giorni c’è una corrente di pensiero che spinge per 1917; Irishman pare ormai superato, mentre uno zoccolo duro continua a sostenere Joker, non pensando che alla fine senza Scorsese non sarebbe mai esistito. Le Mans ’66 – La grande sfida e JoJo Rabbit sono obiettivamente fuorigioco (Le Mans vincerà l’Oscar per il montaggio con l’accoppiata Andrew Buckland-Michael McCusker), Parasite sarà l’Oscar per il film straniero, Storia di un matrimonio probabilmente la miglior sceneggiatura originale. Potrebbe essere l’anno di Piccole donne, visto il clima da #MeToo, ma sarebbe uno svilire il miglior film, perché se esistesse un verdetto davvero equo l’Oscar dovrebbe andare a Irishman o a C’era una volta a…Hollywood. Per me sarebbe lo stesso, ma devo dirne uno. Dico Irishman.

Miglior regista. Tarantino. Ma solo perché Scorsese ha esibito il suo stile con maggior spudoratezza in passato, in lavori che fossero meno vincolati dalle esigenze Netflix di Irishman. E comunque non è da sottovalutare la tentazione dell’Academy di darlo a Sam Mendes per un film, 1917, apparentemente fatto apposta per.

Miglior attore. Joaquin Phoenix per Joker, verdetto impossibile da sbagliare.

Miglior attrice. Renée Zellweger per la Judy (Garland) emaciata, confusa, instabile e tristemente crepuscolare del peraltro mediocre film di Rupert Goold.

Miglior attore non protagonista. Difficile. Anthony Hopkins è un credibilissimo Ratzinger molto più simpatico dell’originale, Joe Pesci sembra che non abbia mai fatto altro nella vita che mandare qualcuno a picchiare o a uccidere qualcun altro, mentre Al Pacino è più se stesso che Jimmy Hoffa, che a sua volta era più simile al Jack Nicholson che lo interpretò in Hoffa – Santo o mafioso? di Danny De Vito. Tom Hanks è un volto che fa sempre gola all’Academy, anche se l’ultimo Oscar l’ha vinto 25 anni fa, ma la mia speranza e il mio voto vanno a Brad Pitt: quattro parole in tutto C’era una volta a…Hollywood, ma la ricchezza è in un corredo di smorfie, ammiccamenti e sorrisi sarcastici che meriterebbero la statuetta.

Miglior attrice non protagonista. Laura Dern nella parte dell’avvocato divorzista che vorresti lentamente strangolare in Storia di un matrimonio. Fantastica, proprio perché urticante. Però occhio a Florence Pugh, non solo in Piccole donne per cui è candidata, ma anche per ciò che ha fatto in Midsommar, che gli Oscar hanno totalmente dimenticato, com’è giusto che sia. Il futuro però è tutto suo. Ma stanotte vince Laura.

Miglior sceneggiatura originale. Storia di un matrimonio. Talmente ben scritto che si è diretto praticamente da sé (tanto fa tutto Noah Baumbach, anche alla regia). Come poi si possa candidare Cena con delitto, la cui sceneggiatura verso la fine si avvoltola totalmente su se stessa per giustificare la logica di un assassinio, resta un mistero davvero gaudioso. Molto più di quello raccontato dal film.

Miglior fotografia. Roger Deakins per 1917. Nessun altro ha realizzato (e non solo quest’anno) un così complesso tour de force tra trincee, terre di nessuno e scenari di un incubo fiammeggiante da poterlo insidiare. Medaglia al valore, ancora più dell’Oscar. Una guerra vinta da solo.

Miglior documentario. Per motivi politici potrebbero vincere i due documentari sulla Siria nella cinquina. The Cave, su un gruppo di donne medico impegnate nella cura dei feriti in un ospedale improvvisato vicino Damasco. Guerra e sessismo. Oppure, ancora meglio, For Sama, lettera aperta della regista Waad Al-Kateab alla figlia, nata sotto i bombardamenti di Aleppo, tra macerie, cadaveri e orrori vari. Scelgo Sama. Per simpatia. Largo ai giovani.

Miglior film straniero. Non c’è partita: Parasite, neanche a parlarne.  

Dunque, le categorie citate sono dieci.

Se le becco tutte e dieci, esigo che mi sia consentito l’ingresso nell’Academy.

Se ne prendo più di sei, che comunque è pur sempre la sufficienza, mi ritengo pienamente soddisfatto e potreste vedermi sorridere senza un apparente motivo.

Se ne indovino cinque ovviamente non posso dirmi contento, ma se ne azzecco solo quattro o addirittura meno chiudo immediatamente il blog, e scusatemi per il tempo che vi ho fatto perdere fino adesso.

Non ci sperate, però, ché non è elegante.

Janet Gaynor vince l’Oscar come miglior attrice protagonista in Settimo cielo, L’angelo della strada e Aurora.
Hat Trick.
E’ la prima notte degli Oscar, è il 1929 e non c’è ancora la diretta Sky.

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema pur essendo cosciente dell'inutilità.

2 Risposte a “Oscar e credibilità, cercando di essere Nostradamus”

  1. Dunque. Ne ho presi 6.
    7, se contiamo l’Oscar al montaggio per Le Mans detto en passant parlando del miglior film.
    Parasite miglior film, miglior regia e miglior sceneggiatura mi ha spiazzato completamente, perché pensavo che la decisione fosse più ecumenica (ti diamo il miglior film straniero, così ci teniamo libere le altre categorie). Ho sbagliato anche il miglior documentario.
    Credibilità intaccata, ma più o meno ancora salva.
    Si va avanti.

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