Due parole su Licorice Pizza qualche giorno prima che esca

Fateci caso: ogni film ambientato negli anni Settanta ha sempre un retrogusto posticcio, come se tutti i personaggi si fossero mascherati per un’enorme festa di Carnevale a tema. Licorice Pizza, il nuovo film di Paul Thomas Anderson, in uscita sui nostri schermi il 17 marzo, è invece un’autentica ventata di freschezza, perché di posticcio non ha nulla. Anzi, se non fosse per la grana dell’immagine e i colori pieni, tutt’altro che desaturati, sembrerebbe proprio un film realizzato negli anni Settanta, ma con una particolarità rispetto a quelli originali che lo fa essere più realista del re, come dicevano i critici della monarchia francese restaurata una volta rimessasi in sella. Perché i film americani anni Settanta avevano tutti un paio di caratteristiche inderogabili: una, lo scoramento esistenziale derivato dalla tradizione noir (e da Hemingway: applauso!) che si rispecchiava nella crisi d’identità generalizzata del paese (e il cui frutto più lucido e maturo fu quello che ancora qualcuno si ostina a considerare soltanto un capolavoro horror, L’esorcista: altro applauso!!). Due, un senso altrettanto scorato di perdita che si sostanziava in un’atmosfera nostalgica e in cui il rimpianto per ciò che era stato diventava l’altra faccia di un mondo accettato con stizza, quando non addirittura rifiutato con un velleitario accenno di rivolta (che finiva sempre male: tutte le volte che vi sembrava che un film si concludesse con una vittoria, seppur amara, avete sbagliato completamente prospettiva, come in Qualcuno volò sul nido del cuculo. Dove volete che vada l’indiano che già nell’ospedale faceva da tappezzeria scrostata?). Ecco, Licorice Pizza è un film degli anni Settanta, tutt’altro che posticcio, che rifiuta sia lo scoramento esistenziale, sia il rimpianto nostalgico, perché è stato girato cinquant’anni dopo nella cosciente elaborazione di un tempo ormai trascorso e irrecuperabile, con due protagonisti imperfetti anche come antieroi ma che sprizzano vitalità, gioia nell’affacciarsi alla vita anche negli inevitabili imprevisti (e nel film ce ne sono tanti), incapaci di amarsi davvero per goffaggine, paura e inesperienza ma irresistibili nella loro ricerca di uno sviluppo appagante rispetto alla loro quotidianità.

Esempio di ambientazione settantesca posticcia.

Iniziamo dai due protagonisti. Lui, nel film Gary Valentine, è un attore televisivo di successo di 15 anni. Panzetta, ciuffo improponibile, volto paffuto, appare molto sicuro di sé malgrado il fisico non proprio apollineo, forte della sua eloquenza e della sua intelligenza. Nella realtà, Gary è Cooper Hoffman, ha 19 anni ed è il figlio di Philip Seymour, attore feticcio di Paul Thomas Anderson (d’ora in avanti PTA, quasi come un videogioco di macchine) e indimenticabile guru à la Ron Hubbard in The Master. Lei è invece Alana Haim e nel film si chiama allo stesso modo. Ha due sorelle maggiori sia nel film sia nella vita reale (le stesse), con le quali ha un gruppo rock chiamato come il loro cognome e di cui PTA è stato regista di alcuni video (non sono male, fanno musica orecchiabile e sostanzialmente innocua, perché gli anni Settanta sono passati davvero e Bonzo Bonham manca da 42 anni, Keith Moon addirittura da 44 e neanche Phil Collins se la passa tanto bene. Che vi credete?). Inoltre il buon PTA è stato anche allievo della loro mamma (anche lei nel film come madre delle tre, pensate un po’). Nel film Alana ha 25 anni, 10 più di Gary, da cui è attratta, probabilmente dapprima incuriosita, poi legata da sincero affetto, ma da cui la divide l’idea di non poter avere una relazione con un teenager (be’, come condannarla?). Sono loro stessi e anche per questo sono naturalissimi, oltre che per il fatto di essere ottimamente diretti. PTA esalta la loro naturalezza, la loro maschera adolescenziale fatta di brufoli e ormoni (per lui) e di uno «jewish nose» per lei (non vi indignate, perché non sapete ancora di che cazzo sto parlando: non è antisemitismo è solo una citazione del film). Totalmente imperfetti, dicevamo, lui è tondo, lei non è quadra perché ha un viso piuttosto irregolare, ma provate a staccare loro gli occhi di dosso, se ci riuscite: non ce la farete, sono entrambi assolutamente magnetici. E il merito è di come occupano lo spazio nell’inquadratura, di come la macchina da presa li segue in quell’atmosfera Seventies tangibile, con quella fluidità ammaliante per cui all’inizio della carriera di PTA la critica aveva scomodato lo stile di Scorsese (o di Mikhail Kalatozov, a seconda del grado di snobismo di chi voleva inquadrarlo in qualcosa di noto ― o meglio, di non noto, ché fa più fico) e che invece, adesso, dopo nove film, di cui almeno tre capolavori (per questo blog Boogie Nights, Magnolia e Il petroliere), è solo quella capacità tutta di PTA di collocare corpi nei loro contesti e di dipingerne la traiettoria narrativa assumendo l’unica angolazione ipnotica possibile.

Un po’ tondi, tutt’altro che quadri: Gary e Alana

Non c’è una vera e propria trama. Non c’è uno sviluppo che non sia nel carattere dei personaggi e nello sviluppo della loro relazione. Relazione in senso lato, eh!, così evitiamo anche il solito problema spoiler, poiché in un trailer, come ormai questo blog sta diventando da qualche tempo a questa parte, è sempre l’ostacolo maggiore nella chiarezza dello scambio comunicativo. E se non ci capiamo è inutile che c’incontriamo su queste pagine, no? Il film è fatto di episodi, imprevisti, momenti rappresentativi, aneddoti curiosi, momenti che si avvitano su se stessi, situazioni figlie della più totale gratuità e vicoli ciechi che non approdano a nulla (se spacco un parabrezza mi aspetto che qualcuno ricompaia per farmela pagare, anche se la San Fernando Valley non è la banlieue parigina). È il respiro a pieni polmoni della vita che prorompe in tutto il suo ingenuo entusiasmo: la sua traduzione per immagini è una fotografia perennemente estiva (curata dallo stesso PTA con Michael Bauman) e l’illustrazione di una serie di tentativi schietti con cui i due giovani azzannano le loro varie esperienze. Manca una struttura, uno schema narrativo che faccia da architrave e che trasformi il disegno globale in un percorso di formazione, soddisfacendone le tesi consuete in racconti di questo tipo. Sembra tutto sfilacciato eppure tutto torna, grazie all’omogeneità data dalla messa in scena e dettata unicamente dalla logica delle memorie d’infanzia di PTA, che si susseguono affastellate, come in una sorta di affresco surreale e visionario in cui i singoli episodi coesistono. E per di più, si tratta di una storia di amore fatta di una totale assenza di contatto, in cui prevalgono le divisioni e le ripicche, e nel quale l’unione è data, eccentricamente, dalla sommatoria delle distanze intercorrenti tra i due protagonisti. Sembrerebbe la sostanza di un melodramma e invece è solo l’irriducibilità di una pubertà che non sa ― perché non può, non è ancora il suo giusto tempo ― decidersi a diventare adulta.

Distanze e sfioramenti

Questa divaricazione delle visioni e delle aspirazioni ha il suo correlato in una separazione anche sul piano prospettico. In Licorice Pizza (la pizza di liquirizia è il nomignolo del vinile e di una celebre catena di negozi di dischi del sud della California, ma è solo la madeleine di PTA, i dischi non c’entrano niente se non come splendida contestualizzazione sonora) la narrazione procede spesso lungo una biforcazione dei punti di vista, esplicitati attraverso piani soggettivi che, come una coperta volutamente troppo corta da un lato o dall’altro, fanno di volta in volta di ognuno dei due protagonisti un osservatore dell’altro con la speranza di comprenderlo per avvicinarlo e conquistarlo. Di fatto, però, le soggettive di Gary e Alana, più che congiungere i due personaggi creando un contatto, paradossalmente li allontanano, escludendo vicendevolmente l’uno dalla percezione dell’altra e quindi, temporaneamente, dalla propria vita. Ogni volta che su uno dei due ragazzi si posa lo sguardo dell’altro, se ne sancisce la lontananza da sé, la possibile rottura definitiva. Perché la singolarità della sceneggiatura risiede proprio nelle (apparentemente) enormi e irrisolvibili distanze che si fanno invece desiderio da colmare per risolvere la propria incompletezza. Lo sguardo come connettore dell’aspirazione frustrata, ma anche, almeno in un’occasione, il dialogo, o meglio, la totale mancanza di esso, mostrato in una splendida sequenza al telefono che si candida a diventare parte di un’ideale antologia, soprattutto per la capacità di creare una sospensione drammatica tra l’universo interiore dei due protagonisti e quello esterno, che osserva disorientato senza poter davvero capire.

La scena d’antologia della telefonata: sentirsi senza parlare

Se si gratta sotto la superficie, Licorice Pizza è sì un film d’amore, ma d’amore verso il cinema. Non c’è una sola sequenza che non rimandi a qualcos’altro, come se PTA, oltre a riferirsi ai luoghi in cui è cresciuto, avesse messo in scena la sua personale enciclopedia d’amante del cinema con cui si è formato. Sì sì, il solito cazzo di postmoderno, ovvio. Certo, anche il gusto della citazione, tutto vero e tutto come sempre, almeno dagli anni Settanta (di nuovo, madonnasanta), cioè da quando i registi mostrarono di essersi finalmente accorti dell’esistenza di un cinema prima della loro venuta, come invece non avevano fatto i loro più anziani colleghi della Hollywood dei tempi d’oro, che ben difficilmente si preoccupavano di cosa succedesse al di fuori delle mura degli Studios. Quindi niente di nuovo. Bene, però qua si tratta di una storia d’amore adolescenziale che ne nasconde, in filigrana, un’altra molto più intensa e destinata a caratterizzare un’intera carriera. Per non tediarvi con le inquadrature e le scelte di regia che riflettono l’evidente volontà di metaforizzare l’atto stesso del fare-cinema (che i più avveduti, altrove, non certo qua, chiamano marche d’enunciazione ― ma non ditelo in giro, ché se no vi prendono per il culo), provate un attimo a individuare tutte le derivazioni che si riflettono in ogni singolo episodio. Io ve ne dico solo alcune, voi completate il resto, perché il bello è anche questo, misurare il proprio amore per il cinema, e se il verbo misurare vi fa venire in mente quando saggiavate i vostri progressi di crescita con gli amici sulle panchine dei giardinetti, non vi preoccupate, perché alla fine chi ama il cinema è un adolescente mai veramente cresciuto. Come non pensare, infatti, a Breezy di Clint Eastwood quando Alana ha un abbozzo di liaison con uno Sean Penn che nel film di nome fa Jack Holden ed è tutto agghindato come il vecchio divo William? Come non notare, subito dopo, l’evidenza della goffa impresa motoristica dello stesso Sean Penn, i cui echi conducono direttamente alla mitologia di scene come Gioventù bruciata e alla sua elaborazione nostalgica in American Graffiti? E poi, ancora, l’ufficio elettorale come in Taxi Driver e il matto che ci gira intorno che fa un po’ Travis Bickle e un po’ Nashville, senza contare che ogni volta che Gary e Alana corrono, e corrono per tutto il film, giusto per prendere la vita in pieno volto carichi di un ottimismo ingenuo e folle, ricordano la stessa poesia podistica dei personaggi della Nouvelle vague, pensate solo a Jules e Jim e al record del giro lanciato di tutto il Louvre in Bande à part (fissato in 9 minuti e 43 secondi, come tutti sanno).

To’, guarda il caso: un cinema

Sto esagerando? Per niente. Se ancora non mi credete e vi siete rifiutati di trovare tutte le altre citazioni che non vi ho detto, fate attenzione al luogo in cui i due ragazzi si abbracciano nel finale e poi ditemi se non ho ragione. Ma non che voglia averla per forza, perché si dà ai fessi, solo che è così, c’è poco da fare. Intanto guardatelo, perché sarà una delle visioni più piacevoli dell’anno. Di ogni anno, almeno dagli anni Settanta.

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema pur essendo cosciente dell'inutilità.

2 Risposte a “Due parole su Licorice Pizza qualche giorno prima che esca”

    1. Ho letto la tua recensione: interessante l’ombra che noti posarsi sulla serenità tutta californiana.
      Harvey Milk: anche l’acconciatura lo ricorda, vero.
      Il tizio inquietante con il numero 12, tra l’altro messo in scena magistralmente con un movimento di macchina e un’incorniciatura dovuta al telaio della porta del locale, altra eventualità che il film fa implodere con grande grazia, perché è inutile significare ulteriormente se già il cinema precedente ci ha detto tutto (Taxi Driver, Nashville).
      Nella tua ottica, Licorice Pizza sarebbe un ideale epigono di Un mercoledì da leoni. E non è male, a pensarci.

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