Ritorno all’origine della rubrica, quando ancora non s’era montata la testa come blog

Quasi sette anni fa, quando nacque come rubrica sulle pagine online di «Cineforum», questo blog aveva un preciso proposito: assecondare il gusto onanistico rispetto allo stile e al linguaggio cinematografico dell’autore per farsi irretire da una scena particolarmente illuminante o stilisticamente innovativa, estrapolandola dal film di cui faceva parte con lo scopo di evidenziarne gli elementi di interesse. Dissezionare le sequenze, ossia (dis)Sequenze, per l’appunto. E così è stato fino a quando la rubrica, sommessamente, si è ritirata, perché aveva compreso che sulla rivista di cui faceva parte il tempo delle rubriche era ormai terminato, anche se nessuno lo aveva ufficialmente comunicato. Ma siccome la rubrica non è solo perspicace, è anche vanitosa, lungo quella sua breve esistenza si era compiaciuta di se stessa e non voleva scomparire, per cui, come forse ricorderete, in quel periodo apparentemente lontanissimo in cui la mascherina in giro la mettevano solo i cinesi e i malati terminali, si trasformò in blog, perdendo gran parte dei suoi lettori precedenti ma trovandone di nuovi, probabilmente più simpatici perché meno distaccati (su una rivista ci capiti, su un blog ci vai deliberatamente, anche perché una mailing list ti scassa il cazzo periodicamente. Shhhh, non aggiungete altro: lo so). L’intenzione iniziale inaugurando il blog era di dissezionare scene e sequenze con la stessa frequenza di prima, ma poi, oltre che dall’insana passione rispetto allo stile e al linguaggio che causa cecità e bulbi piliferi nel palmo delle mani, l’autore è stato corrotto da un’altra insana passione, quella della vanesia chiacchiera a vuoto, e quindi il blog, malgrado le buone intenzioni, s’è trasformato in quello che con tanta pazienza leggete oggi, che dice senza dire, che quando sembra che dica in realtà non dice proprio niente.

Il regista Aleem Khan con le due protagoniste, Joanna Scanlan e Nathalie Richard. © RÅN studio

Però capita che. È infatti è capitato. Che un piccolo film di un regista esordiente parta in un certo modo, sorprendente, pur nella sua estrema semplicità, e che a questo blog torni l’antica passione e cerchi di riviverla, pur mediandola con la solita estenuante dose di chiacchiere. Sto parlando di After Love, esordio alla regia di un (relativamente) giovane regista del Kent (la regione inglese, non le sigarette: non vi è mai capito negli anni Ottanta che un vostro zio vi mandasse dal tabaccaio a prendere le Kent? A me sì. Anche le Muratti e le Stop), Aleem Khan. After Love è uscito nelle sale italiane qualche giorno fa ed è un film di rara sensibilità, perché, per l’argomento trattato, tra lo scomodo in tempi di politicamente corretto (dio che gran rompimento di palle!) e il pericolo di una deriva da soap opera, si tiene in un ammirevole equilibrio che resiste fino alla fine, quando invece il rischio di sbracare c’era tutto. Di cosa parla il film? Un solo accenno, per evitare lo slalom della scorsa volta mentre le olimpiadi di Pechino stanno giungendo al termine: una recente vedova convertita all’Islam scopre la doppia vita del devoto marito, impegnato sul duplice fronte Dover – Calais, ventuno chilometri in un senso e nell’altro, anche se ci vogliono mezz’ora ad andare e due ore e mezza per tornare (chi indovina perché? Fatemi sapere. Se qualcuno indovina vince la sospensione dalla mailing list per un mese). Dunque, di questo film dal grande equilibrio, dotato di silenzi pregnanti e sguardi dubbiosi e sofferti che sostengono da soli molte lunghe inquadrature, le recensioni le trovate comodamente in giro, basta che scriviate “After Love” su Google e andando oltre le voci che vi vorrebbero indurre a una fumata postcoitale, troverete un sacco di articoli e commenti, qualcuno addirittura diverso da tutti gli altri, se siete fortunati o particolarmente sgamati, e a cui volentieri vi rimando, mentre a noi interessa solo quella dannata prima scena. Bellissima.

Nella luce soffusa di una cucina, una donna che ha appena tolto l’hijab dialoga con il marito, di cui, dopo un rapido ingresso in casa, si scorge solo la sagoma semioscurata perché è nel tinello, dalla parte opposta rispetto alla cinepresa, confinato nella profondità di campo (cioè nell’ampiezza nitida dello spazio completamente a fuoco dell’inquadratura) e incorniciato dallo stipite della porta della stanza successiva, con un effetto che il cinema utilizza spesso, quando vuole evidenziare qualcosa, detto di quadro nel quadro. Lei sta preparando la cena e intanto discutono dell’’aqīqa, il battesimo islamico di una neonata, Khalila, che conoscono e a cui dovranno partecipare. È un quadretto di ordinaria vita familiare, come potrebbe capitare a tutti se solo fossero visti dal di fuori (grattatevi pure, ma non per il quadretto familiare, perché c’è di peggio, tipo ciò che seguirà). La macchina da presa staziona in cucina, osserva la moglie affaccendarsi, mentre sullo sfondo il marito accende la televisione, mette una mano al petto, che è solo un atto di devozione ma a ragion veduta lascia presagire qualcosa. Il marito è fisso nel riquadro, la moglie si sposta lungo l’ampiezza dello spazio scenico a disposizione, dal frigo, al fornello, poi al lavandino. Dialogano, il marito riconosce che il nome dato alla bambina è un bel nome, la moglie ammette che non ama vedere i bambini rasati a quella tenera età, mentre il marito, sedendosi pesantemente sulla poltrona, le fa notare che non è molto diverso dall’infilare la testa nell’acqua del battesimo cristiano. Il fischio della teiera irrompe progressivamente in scena, sovrapponendosi alla consuetudine del dialogo: sembra faccia parte di quella stessa normalità che stiamo seguendo, da cui si è attratti senza capire bene perché, se non per quell’istinto voyeuristico incoraggiato e mai sanzionato dal cinema, e invece è un’incursione impropria, in qualche modo dissonante in quella serenità crepuscolare. Perché pensandoci, pur nella sua apparente fissità, tutto è basato su evidenti opposizioni: mobilità della moglie/sostanziale stabilità del marito, luce sulla moglie/ombre sul marito, vicinanza della moglie/lontananza del marito, armonia della sera/fischio acuto della teiera, fisicità/evanescenza della presenza. La moglie continua a parlare, riflette quasi a voce alta, il marito non dice più nulla, ulteriore opposizione. Il tè è pronto e a quel punto anche lei si allontana dalla cinepresa per raggiungere il marito nel tinello.

Si sporge verso la poltrona ma il marito non risponde. Non risponde più. È l’ultima opposizione, quella decisiva, tra commedia familiare e tragedia improvvisa, senza alcuna avvisaglia se non per gli indizi disseminati in precedenza, le opposizioni, le condizioni di luce, il fischio, la mano sul petto, volendo anche la distanza intercorrente tra battesimo ed estremo saluto. Tutto in due minuti e in un’unica inquadratura, in una continuità sconcertante perché non fornisce l’appiglio di un’evidente cesura tra il prima in cui le cose sono banali nella loro normalità e un dopo per il quale, inevitabilmente, niente potrà più essere come prima.

E niente, effettivamente, sarà più come prima. Soprattutto se il prima non è come lo si è sempre pensato, non avendo mai avuto il minimo dubbio che potesse essere altro. Che l’oscurità che occultava la sagoma del marito, mai veramente inquadrato nei suoi tratti distintivi, alludesse anche a quello?

Buon film a tutti voi. Perché sì, c’è anche il resto, ma tutto parte da questo incipit che frantuma ogni placido equilibrio.

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema pur essendo cosciente dell'inutilità.

3 Risposte a “Ritorno all’origine della rubrica, quando ancora non s’era montata la testa come blog”

  1. Grande, come sempre del resto. E stavolta quasi* senza-intenzionalmente- introdurre frasi, accostamenti di parole, battute, qualche parolaccia, che ci sta, eccome se ci sta!, ma facendoun esemplare smontaggio/commento di una sola sequenza. Dopo la lettura della quale non avverti altro che il desiderio di vedere** come procede la storia, come il film prosegue, quale mistero si cella dietro quelle ombre di cui parla Giampiero. Che leggi sempre con gusto, con piacere autentico e RARO in ciò che si scrive di cinema, in cartaceo o online, fa lo stesso.
    Mario Molinari
    NOTE * Quella sul Kent mi fa morire.
    ** In sala, in cui un mal-ambulante come me non va, ahimè, da un po’ di tempo, o anche in streamiing, ma in questo caso temo che dovrò aspettare molto . Vedremo come andranno le cose (= le mie gambe, che è poi una parte per il tutto [metonimia, mi pare]) Finis.

  2. visto ieri, la prima scena è un piccolo film in sè, sarebbe un bellissimo cortometraggio.
    poi il film continua, senza deludere mai, anzi…

    come non essere d’accordo con latua recensione?

    mutatis mutandis, naturalmente, la signora inglese convertitasi per amore del marito pakistano mi ha ricordato la moglie.madre di East is east

  3. @ismaele. sì, giustissimo. lo ha ammesso lo stesso regista in un’intervista di qualche anno fa a Screendaily: East is East è stato il film che gli ha fatto capire il potere unificante del cinema.
    che cosa voglia dire esattamente per lui “unificante” non saprei, ma che East is East sia stata una rivelazione è indubbio.
    grazie dell’intervento!

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