I migliori film del 2022

E anche quest’anno, eccoci alla classifica. Che a differenza della Notte degli Oscar, la quale, come sicuramente ricorderete, negli ultimi anni per me ha rappresentato un’ecatombe, ha il vantaggio di non poter essere smentita dai fatti perché è mia. Certo, può essere discussa, e vi invito a farlo, come sempre, ma non sconfessata. 

La classifica è sempre un momento particolare, perché mette ognuno di noi che vi si cimenti a confronto con l’anno appena trascorso e con i ricordi associati a ogni film (sì, di solito i ricordi si associano ai profumi, alle merendine francesi che si chiamano come mia nonna e una decina di cugine e anche alle canzoni, lo so. Non ditelo a me che su Spotify ho realizzato una mia “autobiografia” in musica con tutti i pezzi musicali che mi ricordano fasi fondamentali della mia vita: una playlist lunga oltre ventiquattr’ore. E se nella vostra vita avete condiviso momenti con me è possibile che indirettamente ci siate anche voi).  È anche vero che come tutti gli anni m’è capitato di guardare con interesse le classifiche delle riviste europee e americane (i CahiersFilm Comment, il New York Times, il New Yorker, sul quale Richard Brody ne cita addirittura 30) e notare come nelle prime posizioni ci siano film che in Italia non sono ancora usciti ma di cui si è in (magari fervida) attesa, fa diventare di colpo questa classifica irrimediabilmente vecchia. E anche un po’ inutile. A dire la verità, qualcuno di quelli di cui si è in attesa lo si è anche visto, ma siccome la classifica contempla solo lavori distribuiti lungo questi ultimi dodici mesi, in modo da avere un terreno comune, spesso sembra di stilare la classifica dello scorso anno. Impressione comunque mitigata dalla seconda e terza posizione attuale, poiché si tratta di film appena usciti o che usciranno domani nel pomeriggio. Quindi, come al solito, facciamo finta che tutto sia normale e passiamo oltre.

Alla classifica. Quest’anno come se fosse un conto alla rovescia.

10. Un monde (Playground) di Laura Wendel

Alla fine non è uscito in Italia, come questo blog ha temuto succedesse. Peccato, perché rimane uno dei migliori film dell’anno. Tenero, delicato, attento a mostrare le sensibili dinamiche di relazione tra due fratelli, uno bullizzato, l’altra imbarazzata dalla debolezza del primo, pur volendogli un mare di bene. È un film di una semplicità estrema, che mostra come siano sufficienti due idee estetiche per fare del buon cinema. Non necessariamente idee nuove, ma gestite con capacità e coerenza: qua la macchina da presa è aderente ai personaggi, si disinteressa dell’azione, di cui si avvertono solo echi e conseguenze decisive. Il film si chiude a riccio in una dimensione intima, escludendo il mondo degli adulti (del padre dei due bambini si vede solo la pancia, ad esempio) e raccontando tutto ciò che succede attraverso il riflesso che ha sui personaggi. Laura Wendel è al suo esordio: siccome non è uno dei fratelli Dardenne dovrà cambiare per forza le dinamiche interne al suo stile, ma se questo è il suo primo film si può essere fiduciosi sul futuro. Speranza.

9. L’accusa di Yvan Attal & Saint Omer di Alice Diop

Due casi processuali differenti e spinosi ma accomunati dallo stesso principio: instillano il dubbio, malgrado i preconcetti che ognuno possiede sui due esemplari casi di cronaca, uno stupro e l’uccisione della propria figlia. Casi ingiustificabili che indignano sempre, indubbiamente. Ma le due sceneggiature hanno la raffinata capacità, un po’ subdola, di andare oltre una verità preconfezionata, che non è bianca o nera e non indulge nel giustizialismo ottuso da social, ma è piena di sfumature che scavano nei particolari, non sfociano nel pietismo e osservano tutti i rivoli possibili di una realtà complessa, sofferta, straziante, per molti versi inaccettabile. Più avvincente e incalzante il primo, più riflessivo e doloroso il secondo. Una lezione per tutti coloro che giudicano senza sapere. Ossia, l’impulso che colpisce, chi più, chi meno, quasi tutti. Educativi.

8. The Girl and the Spider di Ramon Zürcher e Silvan Zürcher

Un piccolo film proveniente dalla Svizzera, uscito in Italia solo su Mubi. Pochi personaggi, essenzialmente un paio, più alcuni altri che aiutano in un trasloco. Tutto in 48 ore. In realtà il trasloco è l’allegoria di un distacco e il film fluttua tra i non detti e le reazioni delle due ragazze protagoniste. Le quali hanno avuto una storia che adesso, con il trasferimento di una delle due, è un addio improntato a criteri di civiltà (ovvio, sono svizzeri) e a qualche minima reazione scomposta. Colpisce, però, il vuoto affettivo e psicologico di cui sono preda questi personaggi, rispecchiato negli stessi vuoti dei due appartamenti che prima vengono sgombrati ma che poi non paiono davvero riempirsi. I due fratelli svizzeri, al secondo film dopo Das merkwürdige Kätzchen, mostrano una geometrica raffinatezza formale che può sembra freddezza ma invece è solo pudore, dimostrando che si può entrare nell’animo delle persone senza per forza muovere la macchina da presa verso un volto nel tentativo di cavargli le emozioni. Essenziali ma poetici.

7. RRR di S.S. Rajamouli

Una ventata di iperbolica freschezza. Un divertimento di oltre tre ore. Film indiano che grazie a Netflix è stato possibile vedere anche da noi, altrimenti si sarebbe perso insieme a tutti gli altri film di Bollywood, molti dei quali altrettanto magnifici, che si ignorano inevitabilmente perché sono tanti, forse troppi e tutti sconosciuti. Un racconto epico su due eroi inizialmente collocati su opposte barricate nell’India degli anni Venti, ancora lontana dall’indipendenza dal colonizzatore britannico. E quando si dice epico, nei film indiani, il termine ha un significato assoluto, roba che vi farà strabuzzare gli occhi dalla sorpresa e sganasciare dalle risate, ma non perché sia ridicolo, solo perché non crederete ai vostri occhi. Non a caso ha due candidature ai prossimi Golden Globe, come miglior film straniero e come miglior canzone per Naatu Naatu. Guardate qua, questa è la canzone e questo il momento del film in cui si sente, sequenza nella quale il conflitto con i britannici trasla sul piano del ballo. Solo dopo capirete cosa s’intende per epico a Bollywood, ossia una sorta di sinonimo di gorgeous. Piccolo particolare: il protagonista di destra, N.T. Rama Rao, è uguale a mio cognato e da quando ho visto il film mi aspetto sempre che inizi da un momento all’altro a ballare così o che mi attacchi con la rincorsa. Ma se lo fa, giuro che mi cappotto dalle risate. Indimenticabile.

6. Only the Animals di Dominik Moll

Il film che non ti aspetti. Uscito in sordina, visto grazie al fatto di doverlo recensire. È un film difficilmente classificabile ma dal fascino enorme ed eccentrico. Una donna della buona borghesia parigina (Valeria Bruni Tedeschi) scompare senza lasciare traccia e il film segue le vicende di cinque persone collegate alla sua sparizione. Sembra un giallo, ma dopo poco più di venti minuti si capisce che fine abbia fatto la donna e il mistero si sgonfia, ma non il film, che si diverte a infittire di misteri la trama e a spiazzare lo spettatore, conducendolo spesso fuori strada giocando con le sue false convinzioni, tra le quali quella che si trattasse di un film sulla sparizione di una donna. Interessante la frantumazione di tutti i punti di vista interni al racconto e perfettamente consapevole già in fase di scrittura la densa organizzazione delle varie derive narrative. È sempre un piacere farsi manipolare da un meccanismo così strutturato (sì, sì! Manipolatemi!) e anche se il finale sa tanto di chiusura obbligata in cui tutte le tessere del puzzle tornano al proprio posto, il complesso è davvero affascinante. Sorprendente.

5. Stringimi forte di Mathieu Amalric

Un prodigio di scrittura e una regia miracolosa. Sembra una fuga da casa di una donna in crisi e invece è una lunga e straziante elaborazione di un lutto (ora lo posso dire, evitando la gincana di cui fu protagonista il blog quando ve lo presentò: se non l’avete visto finora, peggio per voi). Ma siccome gli elementi per comprendere sono centellinati dalla narrazione, non diventa mai un melodramma, quanto il tentativo di creare un rompicapo con un finale rivelatorio che lascia senza fiato. Amalric è un attore fantastico, più raramente è un regista sorprendente, come in questo caso. Gioca su due piani, che paiono contemporanei e invece sono solo paralleli, perché al cinema grazie al montaggio puoi fare il cazzo che ti pare, ma solo se lo sai fare, altrimenti diventa confusione. Ma in Stringimi forte la confusione c’è solo se non si sta attenti, perché è cinema che sollecita la mente e richiede uno sforzo non comune che però, una volta realizzato, dà un’enorme soddisfazione. E mostra in filigrana tutta l’ardita architettura strutturale che lo anima. Ardito e non riconciliato.

4. Belfast di Kenneth Branagh

Il film più bello di Kenneth Branagh. E vi potete fidare perché a me Branagh come regista, al netto dei ripetuti adattamenti di Shakespeare, non mi è mai piaciuto. Un’immersione nel suo passato, quando Belfast era peggio di Scampia e bastava confessare di essere stati una volta in pellegrinaggio a Roma per beccarsi una molotov sul cranio. Ma la crudezza delle strade si declina in una prospettiva infantile, tenera e divertente, con personaggi irresistibili e con il cinema, ancora più del teatro, che nella carriera di Branagh è stato certo più importante, a fare da filtro metaforico e a stemperare la drammaticità politica di fondo. Che pur è presente ma vissuta e mostrata come se si trattasse delle scene dei film celebri visti dal piccolo protagonista in una sala cinematografica. Come dicevamo su queste stesse pagine, l’infanzia di Branagh si fa atto rivelatorio dell’età adulta, mentre la finzione non è un dato soggettivo, ma è fissata nell’idealità di un ricordo. Un ricordo talmente coinvolgente che diventa la memoria possibile di chiunque. Trascinante.

3. The Fabelmans di Steven Spielberg

Biografia di illuminazione professionale per Steven Spielberg ed essendo un film di Spielberg, che compare per interposta persona con l’indicativo nome di Sam Fabelman, da Fabel, favola in tedesco, ossia l’uomo che realizza favole, non ha una sola inquadratura fuori posto (forse solo una, la reazione di un personaggio secondario a un momento di crisi personale seguito a una scazzottata, ma solo una in ben due ore e mezza di film e tenete conto che sono io ad essere spesso incontentabile). Un omaggio al cinema che è anche una seduta psicoanalitica sulla sua complessa vicenda familiare, con (almeno) due momenti da segnalare. Uno nascosto, l’altro manifesto (ma non lo dirò per rispetto a chi non l’ha ancora visto). Il cinema è fonte primaria di rivelazione, dopo anni di rimozione e incomprensioni (soprattutto di se stesso): per anni il buon Steven ha semplicemente occultato la figura paterna dal suo passato (anche nel suo cinema, ricordate E.T.?), perché ritenuta responsabile dell’abbandono della famiglia senza che ne rivendicasse le eventuali ragioni. Che furono poi rivelate nell’imperdibile documentario del 2017 firmato da Susan Lacy e ora riaffiorate e ammesse in prima persona dallo stesso regista attraverso la verità inconfutabile delle immagini, come a dire che il cinema confeziona storie ma guardando sullo sfondo la verità si coglie sempre. L’altro è il momento in cui si manifesta tutta la magia inarrivabile di Hollywood ed è quando il giovane Sammy entra nell’ufficio di uno dei più grandi registi di tutti i tempi. Per rispetto non vi dirò chi è, ma vi premetto che è uno dei soli tre che avrebbero potuto dare sostanza mitologica all’incontro (il secondo è Hitchcock, l’altro è Welles, che però non aveva un ufficio a Hollywood – ce ne sarebbe un quarto, Cecil B. DeMille, ma alla metà degli anni Sessanta non era più sulla breccia e comunque la sua presenza è evidente, anche se non citata, all’inizio, nel film che il piccolo Sammy vede per la prima volta in una sala, rimanendone sconvolto – si tratta della scena del treno de Il più grande spettacolo del mondo). Il regista in questione fornisce una magistrale lezione di cinema, molto blasé, come nella natura del personaggio, di cui nel passato abbiamo già parlato. Attenzione anche a chi lo interpreta, abilmente truccato, anche se ora pare più interessato alle previsioni del tempo. Commovente. Ma davvero, perché appena Sammy entra nell’ufficio io ho cominciato a perdere lacrime senza controllo.

2. Avatar: La via dell’acqua di James Cameron

Io vi avevo avvisato. Se l’avete visto in 2D perché siete tirchi non lamentatevi se siete usciti dalla sala delusi. Se invece l’avete visto in 3D è la più grande esperienza cinematografica che voi abbiate fatto negli ultimi 10 anni o perlomeno dai tempi in cui avreste dovuto vedere Dunkirk di Nolan in una sala Imax (quindi, nel nord Italia, o in Lombardia o col cazzo). Adesso non ve la voglio fare troppo lunga, ché voi dovete fare gli ultimi regali per Natale, ma questo è anche l’unico modo per poter cercare di contrastare l’inedia che ha colpito il pubblico nel post-pandemia e obbligarlo ad andare al cinema senza infossarsi sul divano e vedersi qualsiasi cosa sulle piattaforme (e ve lo dice uno che il film sul suo divano lo vede sempre moooolto volentieri). Perché Cameron non ha realizzato un film, ma di nuovo, dopo il primo Avatar, ha creato un mondo da abitare e ha invitato tutti a farlo, sentendosi parte del pianeta di Pandora. Un film da percepire col corpo e non da vedere con gli occhi, lo avevamo già detto e lo ripetiamo. Chiunque lo critichi è un cagacazzo capace di dire che però, ehm, sì, anche Marilyn non è che fosse così gnocca e che alla fine, guardando bene, Van Gogh aveva il tratto troppo pesante. Ah, a questo proposito mi è venuta in mente una storiella sentita in Illusioni perdute di Xavier Giannoli, altro film che non avrebbe stonato in questa lista di dieci (ma la storiella era già nel romanzo di Balzac da cui il film è tratto): due critici sono sul Lago di Tiberiade. Gesù cammina sulle acque e uno dei due critici batte di gomito all’altro: «Te l’avevo detto: non sa nuotare». Tornando ad Avatar: prodigioso.

1. Licorice pizza di Paul Thomas Anderson

Il film più bello dell’anno è la storia d’amore paradossale, senza alcun contatto e inversamente proporzionale alla distanza tra i due protagonisti ambientata nella California degli anni Settanta dallo sguardo acuto di Paul Thomas Anderson. Senza nostalgia, senza lo scoramento esistenziale del cinema che ha raccontato quegli stessi anni, ma con una freschezza pop che si ciba di cinema e ha i ritmi di un lunghissimo videoclip. I personaggi sono eccentrici rispetto alla perfezione dei giovani divi e probabilmente divi non lo diventeranno mai (ed ecco che improvvisamente, per loro, si apre una fulgida carriera solo per il fatto di aver vaticinato), ma sfido chiunque a trovare due protagonisti così ipnotici come Cooper Hoffman, rotondetto e foruncoloso figlio di Philip Seymour, e Alana Haim, membro del gruppo che ha il suo stesso cognome perché formato dalle sue sorelle. La loro è una parabola che si riempie di avventure apparentemente gratuite, da cui invece prorompe una vitalità adolescenziale difficilmente arginabile. I personaggi corrono sempre. E non è un caso. Corrono verso la vita, inciampando, tornando indietro, imparando dai loro errori e dalle situazioni imbarazzanti in cui spesso incappano. E mentre corrono, guardano e si guardano, ma mentre si guardano, non si comprendono e si allontanano. Fino all’ultima inquadratura, sotto una sala cinematografica. Perché alla fine, la storia d’amore raccontata non è nient’altro che una ampia metafora dell’amore di PTA per il cinema. Contagioso.

Buon Natale a tutti.

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema pur essendo cosciente dell'inutilità.