Slalom gigante per evitare uno spoiler

Se proprio decideste di andare al cinema in questo periodo, andateci con criterio. Fate finta che ci sia solo un film degno di essere visto e che abbiate una sola possibilità. Se vi fidate di questo blog, ascoltate il suo consiglio. Lasciate perdere Jessica Chastain ne Gli occhi di Tammy Faye, che illustra l’universo dei telepredicatori americani ma non sfrutta l’occasione approfondendo veramente; soprassedete su Nightmare Alley di Guillermo Del Toro, che noirizza i suoi soliti fantasmi per introdursi in un luna park che pare una prigione metafisica. Tenete conto che l’altro film degno di essere visto è su Apple tv+ (Macbeth di Joel Coen) e che gli altri due-tre meritevoli (West Side Story, Un eroe e Scompartimento n°6) sono usciti da oltre un mese e che se non li avete guardati fino adesso, perché dovreste farlo ora?, e rivolgetevi all’unico film a cui pensavo già sette righe fa, prima di questa sfiancante introduzione. L’unico film davvero da vedere in questo periodo è Stringimi forte di Mathieu Amalric.

Che non è solo un grandissimo attore ma anche un ottimo regista, nonostante le sue interpretazioni facciano sempre passare in secondo piano le sue regie. Sapete chi è Amalric, vero? L’avete visto in un sacco di film, con il suo occhio bufonide e la sua aria spensieratamente sbattuta.

Eccolo.

In partenza Stringimi forte sembra l’ennesimo film su una donna in crisi che si dà alla fuga. C’è Vicky Krieps, la lungagnona lussemburghese lanciata come protagonista da Paul Thomas Anderson ne Il filo nascosto, confermatasi ne L’isola di Bergman di Mia Hansen-Løve e semiaffossata in quel delirio da adolescente problematico che è Old. La mente va a tutte le fughe di donne in crisi: Natalie Ravenna in Non torno a casa stasera di Coppola, ma Natalie non riusciva ad accettare la sua gravidanza. Quella di Barbara Loden in Wanda, da lei stesso diretta, ma Barbara era la moglie di Elia Kazan e nel cinema anni Settanta si faceva così, senza un motivo che non fosse la sola voglia di scappare. Quella di Frances McDormand in Nomadland, ma Frances non aveva più niente da perdere perché aveva perso tutto. Oppure quella di Thelma & Louise, ma Thelma & Louise, alla fine, si comportavano come dei tamarri di Watts, quartiere degradato di Los Angeles, per cui forse è meglio passare oltre. E allora ricordiamo quella di Robin Wright nel poco visto Land, che è un po’ come Into the Wild ma in montagna e che forse forse qualcosa in comune con quello di cui stiamo parlando, guardando bene, ce l’ha. Ma vabbe’, non spoileriamo. Piuttosto parliamone alla larga. Vicky Krieps va via di casa. Sembra che lo faccia nello stesso istante in cui il marito e i due figli fanno colazione, ma se si sta attenti si nota che la luce dall’esterno non è la stessa, per cui non sta fuggendo contemporaneamente, lo sta facendo in parallelo. Prodigi del montaggio (ma non di quello alternato, ovviamente). Mathieu Amalric, che scrive e sceneggia giostrando come se stesse dirigendo una lunga suite sinfonica, intorbida e confonde à la Charlie Kaufmann, ma a differenza del buon Charlie (a proposito: Einaudi quando cazzo pubblicherà il suo romanzo Antkind, uscito negli Stati Uniti da ormai quasi due anni?), che quasi sempre se ne fotte, proprio perché punta deliberatamente a fotterti, Amalric fornisce degli agganci, dei piccoli riferimenti, degli indizi, che messi insieme retrospettivamente forniscono una dimensione jamesiana, alla Giro di vite, per intendersi (ma se non c’intendiamo è meglio, così non vi rovinate il film).

Tutto è basato su una consonanza speculare. Che vuol dire? Non lo so, però sembrava bello. Sapete, quelle locuzioni che fanno tanto cortina fumogena, suonano fantastiche e poco importa se poi non significano una minchia. Orbene, la consonanza speculare che non vuol dire niente messa in scena da Amalric è costruita su una vicenda mossa su due piani, la donna in crisi e la famiglia rimasta in attesa di un suo ritorno. Non sono due piani separati ma collegati l’uno all’altro intimamente e quest’ultimo avverbio non va inteso come un rafforzativo del legame sul piano individuale quanto in senso rigidamente letterale. Lei dice che ama lui, lui, in un altro luogo e in un altro tempo, risponde alle sollecitazione della moglie per dire che l’ama allo stesso modo, in uno scambio tra amorosi sensi che, a scelta, può essere posto sul piano ideale, può lambire i territori della favola o può ricordare ai più avveduti, quelli che hanno buttato la vita a guardare film mentre gli amici annusavano l’acre e primordiale odore dell’Afrìca, il dialogo onirico tra Gary Cooper e Ann Harding in quel magnifico film che è Sogno di prigioniero di Henry Hathaway. E invece si tratta di una quarta ipotesi, che capirete (nel film) solo dopo ma che è la più semplice, solo che siamo così artefatti e complicati che ormai il rasoio di Occam ci fa ‘na pippa. Il problema è che vi chiederete: ma se lei, che è in crisi, ama lui, e lui risponde che ama lei e che nel suo nervosismo per l’abbandono desidera comunque rivederla, perché cazzo lei non torna? Quanto deve durare questa crisi se addirittura i figli, all’inizio visti come bambini, diventano adolescenti e lei si sta perdendo interamente la loro crescita, le loro difficoltà, il loro dolore e i loro successi (la figlia è una valente promessa del pianoforte che aspira mentre spira a entrare in conservatorio)? Di che natura è questa crisi che impedisce all’amore di vivere se stesso? Questa consonanza tra corpi lontani che si toccano in flashback (che bella parola, flashback, parola chiave, oserei dire) ha il suo necessario corredo nella specularità di cui prima, in situazioni che si ripetono in una duplicità perenne che è ricordo e memoria, di sicuro ossessione, non certo seconda possibilità. Anche in questo caso Amalric fornisce sin dall’inizio gli indizi da recuperare successivamente, una serie di scatti in polaroid che Vicky Krieps getta su un letto e tenta di accoppiare l’uno a l’altro per farne quadrare la sequenza, ma senza riuscirvi. Se ce la tirassimo, potremmo riferirci all’”intreccio di predestinazione” di cui parlano Aumont, Marie, Bergala, Vernet nel loro libro, che non è I tre moschettieri ma una banalissima Estetica applicata al cinema, però non lo faremo, perché tanto, cui prodest? Tuttavia, è proprio così: il testo si dà nelle prime immagini in forma criptica (perché non sai che cazzo succederà), prefigurando a livello compositivo, simbolico e tematico il suo sviluppo. Fateci caso, se vi capitasse di rivedere un film che ricordate bene come va avanti. Certo, regista e sceneggiatore devono essere consapevoli di quello che fanno e mostrare una certa coerenza rappresentativa interna, e non sempre succede, ma nei buoni prodotti capita, abbiate fede. Qua capita e capita anche che le stesse situazioni si vivano due volte, solo da una prospettiva differente, opposta, dal visto invece che dal vedente e viceversa, come un Tarantino sbigottito dopo essersi commosso per Film Blu di Kieślowski.

Il titolo stesso del film, quello originale, è Serre moi fort. Embe’? Cazzo, ma allora vi devo spiegare proprio tutto. Eppure sapete le lingue. Se fosse scritta correttamente, “serre-moi”, come ingiunzione, dovrebbe comparire con il trattino; ma il trattino ufficialmente non c’è (e se lo vedete sul web è un errore di trascrizione o un caso di ipercorrettismo), perché se lo pronunciate nel modo giusto, si pronuncia allo stesso modo di “serre moins”, stringi di meno, ipotesi corroborata dal “moi” della locandina in cui la parola sfoca, tendendo a svanire (guarda su).

Be’, spero apprezziate le difficoltà che sto incontrando per farvi capire tutto senza che capiate davvero, in modo da non rovinarvi il sapore di un film che ruota su un twist improvviso ma adeguatamente preparato, che i più sfacciati diranno di aver capito prima che il film iniziasse senza timore di essere spernacchiati per il loro ardire (ho riso tantissimo leggendo una recensione su un magazine francese online di cui non vi farò il nome perché già mi sento una merda a raccontarvi che ne ho riso, in cui il recensore affermava di aver capito tutto ben prima che si potesse capire, per poi spiegare la scena del twist in oggetto dimostrando di non aver capito davvero un bel cazzo di niente – diffidate, gente, diffidate sempre. Anche e soprattutto di questo blog).

Raccontarvi tutto senza che voi vi siate accorti di nulla non è proprio il principio base della comunicazione ma è alquanto divertente e anche rispettoso, volendo, perché questo blog ha grande stima di voi, anche se non sempre lo dimostra. Per cui, se per caso vi ho convinto, guardate il film, poi, se avete tempo, tornate su queste pagine e trovate tutti gli elementi che vi avrebbero rivelato preventivamente la visione ma anche fatto imprecare come un ultrà per l’avvenuto spoiler. Vi sto chiedendo troppo, ne sono cosciente, però adoro l’idea che possiate farlo davvero.

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema pur essendo cosciente dell'inutilità.

4 Risposte a “Slalom gigante per evitare uno spoiler”

  1. Essere d’accordo è un perfetto esempio di consonanza.
    grazie della tua visita e della tua lettura.

  2. Bellissima recensione! L’ho letta prima di vedere il film e mi è servita per intuire quello che si sforza correttamente di non rivelare.

    1. Ne sono felice. Forse allora questa pseudorecensione a qualcosa è servita.
      La ringrazio molto per la lettura e per il suo cortese riscontro.

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