Il film più bello della storia del cinema. Per i prossimi 10 anni, almeno.

Ve l’avevo anticipato nell’ultimo post. Ora ne parliamo brevemente. Come saprete, al di là delle classifiche varie ed estemporanee che compaiono qua e là, al di là della lista dell’IMdb che fino alla prima posizione può essere grosso modo condivisa (la prima posizione è Le ali della libertà di Frank Darabont e, vabbe’, lasuma perde: vorremo mica discutere i gusti degli utenti?), la classifica più accreditata al mondo sui film più belli della storia del cinema, vuoi per il bacino degli interpellati, vuoi per l’autorevolezza della rivista, è quella decennale di «Sight & Sound», che è il magazine emanato dal British Film Institute. Mica cazzi. Un migliaio di critici interpellati dal 1952, quando la classifica fu inaugurata: il primo fu Ladri di bicliclette. Giustificato, certo, ma era soprattutto un voto emotivo. Dalla volta successiva, e per quarant’anni, ha vinto sempre Quarto potere, mentre dal 2012 è stato rimpiazzato da La donna che visse due volte. Poi, ai primi di dicembre dello scorso anno, cioé un mese fa, la rivoluzione: il film più bello della storia del cinema è Jeanne Dielman, 23, quai du Commerce, 1080 Bruxelles di Chantal Akerman, realizzato nell’anno di grazia 1975. Per farvi capire, nel 2012, quando erano già trascorsi 37 anni dalla sua uscita, era 35°. Prima a nessuno era mai venuto in mente di citarlo. Un bel balzo, parbleu.

Bah. È vero che dopo Coda che sbanca gli Oscar penso di aver visto davvero tutto. Però. Sia chiaro: Jeanne Dielman, 23, quai du Commerce, 1080 Bruxelles è un gran bel film, importante e fondamentale nell’ambito della rivendicazione di una rappresentazione femminile che da sempre è schiava degli stereotipi, perché sono immediati e quindi facili da essere compresi in dinamiche narrative che rispecchiano fedelmente l’evoluzione di una società lenta a progredire nei suoi diritti fondamentali. Ma è una testimonianza, un grido di chiara affermazione in un particolare momento storico, non un film che sovverte le sorti della storia del cinema. A meno che, in un altro particolare momento storico, tipo questo, dopo tutta l’ondata seguita al revanscismo del #metoo, a sua volta seguito al caso di Harvey Weinstein (sta per uscire Anche io, il film che racconta in stile Tutti gli uomini del Presidente e Il caso Spotlight l’inchiesta delle giornaliste Kantor e Twohey del «New York Times» che fece esplodere il caso: ve lo consiglio), a meno che, dunque, non ci sia stata una volontà contingente di voto utile per far affiorare anche esteticamente l’attualità del problema. È l’unica motivazione logica che mi possa dare. Logica, lecita, sì, ma i veri campi di battaglia sono altri.

Quarto potere

Quarto potere era un film seminale. È stato il film che ha fatto capire che un modo diverso di fare cinema a(ttraverso) Hollywood era possibile. È stato il film che ha sconvolto chi lo ha visto e, spesso, non l’ha capito, perché rappresentava una concezione di cinema troppo avanti anche per le menti troppo avanti del periodo (celebre la stroncatura del mio amato Jean-Paul Sartre, che scrisse addirittura: «l’intero film è basato su un’idea sbagliata di che cosa sia il cinema. Il film è coniugato al passato, mentre noi sappiamo che il cinema deve essere nel tempo presente», confondendo l flashback che fanno da struttura portante con la carica dirompente verso il futuro che quelle stesse analessi rappresentavano). Può non piacere, a qualcuno sembrerà gigantesco e barocco (lo è), ma non si può negare la sua importanza, anche stilistica, in ciò che nel cinema è poi seguito. E visto che si parla di un periodo così lungo e non di un solo anno come le nostre classifiche, da prendere più come un gioco condiviso, il film più bello sottintende anche il film più importante.

La donna che visse due volte

Stessa cosa per La donna che visse due volte, che dieci anni fa divenne il primo, scalzando Welles. Forse il migliore film di Hitchcock, forse no (io preferisco Intrigo internazionale, ad esempio, anche se voi potreste farmi in coro «e chi se ne fotte?»). Forse, in virtù della rottura di certi schemi, superato anche da Psycho, ma stiamo parlando di Hitchcock e, con la sola eccezione, credo, de La congiura degli innocenti, qualunque sua pellicola del decennio Cinquanta potrebbe trovarsi comodamente nelle prime posizioni di qualsiasi classifica. Probabilmente non così devastante e improvviso come Quarto potere, più che altro frutto di un percorso artistico coerente, primo passo di un’ideale trilogia sulle direttrici dello sguardo che dopo aver sondato l’orizzontalità (ne La donna che visse due volte, appunto) e attraversato la verticalità (Intrigo internazionale), trovò la sua completa soddisfazione nella profondità (interiore e prospettica) di Psycho. Uno dei film più affascinanti mai realizzati, indipendemente dalla posizione occupata.

Una scena d’azione di Jeanne Dielman, 23, quai du Commerce, 1080 Bruxelles

Jeanne Dielman è un film che racconta tre giorni nella vita della casalinga del titolo (Delphine Seyrig), una vedova di Bruxelles che trascorre il suo tempo nelle faccende di casa, nell’accurata preparazione di una cena frugale che poi consuma con il figlio adolescente Sylvain e nel ricevere al pomeriggio clienti abituali (tra cui il documentarista belga Henri Storck e il fondatore dei Cahiers Jacques Doniol-Valcroze) con i quali si prostituisce. Trascorrere il tempo è il fulcro della narrazione, perché il film è una costante condensazione del tempo quotidiano alla ricerca del suo «lexicon of domestic gesture», come afferma esaltata Laura Mulvey nel bel saggio che su «Sight & Sound» commenta la rivoluzione in classifica (ma non fa testo, perché Laura Mulvey è una delle iniziatrici della Feminist Film Theory: falla anche scontenta!). Tempo che non viene ritagliato ai fini narrativi, ma desunto integralmente nel suo svolgimento per essere reso plastico, palpabile, infinito ed esasperante. Soprattutto in un lavoro della durata di 3 ore e 22 minuti di macchina da presa fissa, frontale, pronta a registrare il flusso dei minuti che passano, sempre uguali a se stessi, giorno dopo giorno, dando l’idea di un segmento in una vita che da sempre, perlomeno da quando la protagonista è rimasta vedova, si è svolto sempre allo stesso modo. In una narrazione che è soprattutto fedele mostrazione, contano i particolari, minimi, ma decisivi per comprendere l’evoluzione di ciò che sta fluttuando: una luce al neon che si riflette in una teca del soggiorno e che spariglia le carte di una fotografia monocorde, fatta di toni pastellati; un vassoio sul tavolo in cui la donna conserva il denaro delle sue prestazioni pomeridiane e che per metonimia rappresenta la sua attività clandestina; le piccole differenze tra un giorno e l’altro, apparentemente insignificanti, ma indice di un disordine progressivo, di tic e di atti mancati pronti a deflagrare nel terzo atto.

Gli ultimi sette minuti del film: il riflesso del neon fisso sul vetro vi indica che è una fotografia e non un video

Jeanne Dielman è un film estremo, appartiene ai territori dell’avanguardia ed è la precisa testimonianza di un tempo. Quel tempo. È un film importante, ma come rivendicazione sociale e politica, come eversione rispetto alle modalità canoniche di rappresentazione narrativa, soprattutto in quel periodo, quando da quindici anni si faceva a gara per sfanculare marxisticamente le modalità imperanti del cinema capitalista americano. Ora appare come se Bersani cantasse a pieni polmoni l’Internazionale su Tik Tok. Superato il post-postmodernismo, rimasti invischiati nel neomodernismo con il suo corredo di arcaismi, nazionalismi-etnici, razzismi e fondamentalismi religiosi, la scelta di Jeanne Dielman come miglior film della storia del cinema appare ancora di più fuori contesto, se non come reazione a questo clima di deriva che ormai pervade un po’ tutti, nel tentativo di riaffermare alcuni dei diritti più bistrattati di sempre, rivelati negli ultimi anni solo dal clamore suscitato dai casi di cronaca, dagli scandali e dai vari movimenti di rivendicazione. È una scelta tuttavia discutibile sul piano della storia del cinema, perché cattura un preciso istante di quella stessa storia per riaffermare un’identità nel presente e voi mi insegnate che due momenti limitati, per quanto si spera che le conseguenze siano permanenti, seppur sommati insieme fanno pur sempre due momenti esclusivi. Due singolarità collegate, non una globalità. Una tendenza che si rispecchia in un periodo successivo, non l’evoluzione del gusto inserito in uno sviluppo estetico considerato lungo l’arco di settant’anni.

Quindi occhio!, perché è la visione del mondo a essere cambiata, non l’intero canone cinematografico.

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema pur essendo cosciente dell'inutilità.

4 Risposte a “Il film più bello della storia del cinema. Per i prossimi 10 anni, almeno.”

  1. ma perché non si può più commentare?
    (lo so, sto commentando, ma intendevo gli altri post).
    Grazie.

    elena

I commenti sono chiusi.