Indirette riflessioni sulla critica a margine di una lettera indignata a un giornale del mattino, ovvero Nomen omen

Uno spettatore esasperato esprime un ponderato giudizio sul premio Oscar

Antefatto.

Una signora romana, Giulia Acciarito, va a vedere Nomadland. Si annoia a morte e, tra una bestemmia e l’altra, ancora indignata, lo scorso 4 maggio scrive a Francesco Merlo nella sua rubrica delle lettere su «La Repubblica», prendendosela con i critici genuflessi al premio Oscar, colpevoli di aver gridato al capolavoro e di aver tratto in inganno il pubblico, lei compresa. Un po’ come il professor Guidobaldo Maria Riccardelli con La corazzata Potëmkin, spacciata per vetta inarrivabile mentre trattavasi, come si sa, di cagata pazzesca (al cui smascheramento seguirono 92 minuti ininterrotti di applausi). Inquietante la risposta di Merlo, perlomeno riferita a una supposta solidarietà di categoria: «Meglio non si poteva dire. La sua lettera è una lezione ai “critici” che hanno ormai una soggezione imbarazzante nei confronti di Oscar, Nastri, Leoni e Papere d’argento. Brava e grazie». Tié. Acchiàppate ‘sta supposta.

Immagini impietose e fortissime

Conseguenze.

Apriti cielo. Non come il bacio proditorio a Biancaneve di quel bellimbusto del Principe azzurro, che per anni abbiamo ritenuto un salvatore esaltato dalle bimbe sognanti e invece era un cazzo di profittatore delle defaillances altrui come un Pacciani qualunque; non come il casino che ha fatto questa molestia d’antan, dicevo, ma quasi. Raccolta di dichiarazioni sui social dei critici, affondi ulteriori di Merlo, dubbi sul fatto che la signora Giulia altro non sia che la Elena Ferrante dello stesso Merlo e per qualche motivo quest’ultimo si stia togliendo ghiaia dalle scarpe sotto mentite spoglie, risposta semiufficiale a nome della categoria del presidente del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani, Franco Montini (che con «La Repubblica», tra l’altro, collabora), replica trionfante della sora Giulia che svillaneggia l’acronimo del sindacato (SNCCI), intravedendone una sorta di derisoria iscrizione cristologica infissa su un’eventuale croce ecc. Tra l’altro, in uno dei suoi affondi successivi (il 7 maggio), Merlo getta benzina sul fuoco, citando il noto adagio di Truffaut (nell’articolo intitolato Les sept pechés capitaux de la critique, pubblicato in «Arts» n.523, 1955) che indicava il critico cinematografico come un regista fallito, uno che ha tentato invano e ora prova dichiarato livore contro chi invece ce l’ha fatta (Bah…l’ho sempre pensato ― e lo sapete ― che in Italia fare cinema equivalga ad accendere una videocamera e vedere cosa succede, mentre lo scrivere del nulla che ne scaturisce ha qualcosa di veramente sublime).

Dubbi

Premesso che un dibattito sulla critica cinematografica, in Italia, è come cercare di galvanizzare le rane da laboratorio, non tanto per i critici, che comunque si sbattono e che ancora annoverano qualcuno che scrive cose interessanti e non allineate, se solo qualcuno le leggesse, ma chi cazzo ha detto che Nomadland è un capolavoro? Montini, nella sua doverosa difesa della categoria, ha ricordato che la media voto del settimanale di cinema più venduto in Italia, «FilmTv», è di 6,8 su 10, che in pratica è la valutazione che da insegnante dai a un allievo che sì, ha studiato, ma alla fine non è stato così brillante e allora premi l’impegno più che la qualità, ma solo per non frustrarlo eccessivamente. La media dei collaboratori di «Cineforum», con film sempre valutati da uno a cinque, è ancora minore, 2,64: nemmeno sufficiente.

I voti di Cineforum.

Lievemente meglio la valutazione media globale di «SegnoCinema»: 2,55, di poco superiore alla soglia dell’accettabilità poiché il massimo è rappresentato da quattro pallini (che in realtà sono triangolini). Vero che nel mondo angloamericano il film ha ottenuto giudizi da capogiro: il massimo per «The Hollywood Reporter», «IndieWire», «RogerEbert.com», «Time», «The Guardian», ma così, a lume di naso, non credo che la signora Giulia si riferisse a questi. Limitandolo all’Italia, eccettuato qualche servizio telegiornalistico perennemente affetto da mollichismo (tutto è un capolavoro, di tutto si deve parlare in termini affannosamente superlativi), ma che di solito illustra e non analizza, tutto si può riassumere nello sferzante giudizio del decano Mereghetti, che sul «Corriere della Sera» lo ha definito «un film medio, furbetto, ottimamente recitato, diretto da una regista che sembra chiedersi solo se inquadrare un tramonto o scegliere l’alba». E anche questo blog, che certamente tra i suoi 25 lettori non annovera la sdegnosa Giulia (se qualcuno nei 25 lettori ci avesse visto un riferimento aulico, devo contraddirvi: non è falsa modestia da trombone meneghino, è realtà dati alla mano), nell’ultimo post ha parlato del film come superficiale, incapace di cogliere l’essenza.

Colui che sui suoi 25 lettori ha edificato una fortuna

Riflessioni, sgranando gli occhi

La signora Giulia, di fatto, è una paleontologa. È andata a scavare in strati geologici quantomeno trentennali per attribuire un’autorevolezza alla critica che nessuno le riconosce più da tempo, se qualcuno arrivasse anche solo a preoccuparsene. Fino a poco fa, all’argomento erano interessati almeno gli stessi critici e ne discutevano tra loro, come gli anziani che in coda dal medico di base discutano dei rispettivi acciacchi. Ora non interessa neanche più a loro. Prova ne sia che nel marzo dello scorso anno, alla vigilia del primo lockdown, prima che «Cineforum» cartaceo interrompesse l’uscita, era praticamente pronto per la pubblicazione uno speciale a più voci sull’argomento che successivamente, poco meno di un anno dopo, quando la rivista è nuovamente uscita profondamente rinnovata nella scadenza e nei contenuti, è stato cassato perché ritenuto di scarso interesse (il mio intervento, sull’evidente erosione dell’autorevolezza ad opera della divinità-algoritmo e degli influencer su YouTube, è confluito nel mese scorso sulle pagine di «Cinecritica», la rivista diretta da Montini, il presidente del cristico SNCCI, guarda caso). Se la figura del critico cinematografico come guida culturale si è ormai praticamente estinta da circa trent’anni, smarrita per colpa della sua tracimazione in mille siti dedicati al cinema, blog naïf aperti da chiunque (da che pulpito, penserete voi ― dài, passate oltre e non ci pensate), post di facebook, tweet ironicamente inflessibili che rinverdiscono la tradizione delle pasquinate, canali YouTube in cui nascono sedicenti influencer ogni trentadue secondi e la regola è lo sbrodolamento egoriferito, quando la signora Giulia si reca a vedere Nomadland con tutta la famiglia come se andasse a vedere il nuovo film di Checco Zalone, dove stracazzo l’ha letto o sentito lo spassionato consiglio che l’ha mossa a tale traversata del Mar Rosso, al punto, poi, di accusare genericamente un’intera ectoplasmatica categoria, quasi chiedendo pubblicamente il rimborso del biglietto speso? Nel dorato universo del web, in cui ogni gap è azzerato e, come ci hanno insegnato i 5stelle, giusto a proposito di ectoplasmi, l’uno vale sempre uno, per cui il vacuo Di Maio può fare il Ministro degli Esteri, così come nella storia della Repubblica hanno fatto De Gasperi, Nenni, Segni, Saragat e Moro (e mi fermo, se no dovrei citare anche Angelino Alfano, ma quella era già la Seconda di Repubblica ― l’apocalisse delle coscienze, di fatto), allora Morando Morandini e Paolo Mereghetti svolgono la stessa funzione di HarryPotter98 e BabyLexotan e tutto implode in un cosmico buco nero in cui ognuno ― ma proprio chiunque ― rappresenta per l’altro un Mosè in grado di mostrargli la via verso la Terra Promessa del film-assolutamente-da-vedere. Ma se la signora Giulia in fondo io la capisco, in quanto spettatrice indignata, assolutamente non tenuta a conoscere l’ampiezza ormai mortifera del fenomeno critico e desiderosa di fare un po’ di appagante ammuina che nemmeno lei si aspettava così amplificata, più difficile giustificare Merlo, che rispondendo a quel modo e ignorando il fenomeno che Giulia ― ma non lui! ― ha tutto il diritto di non conoscere, ha fatto nient’altro che la figura prevista dalla sua specie. Pardon, dal suo cognome.

Nomen omen.

Tipico livore del critico alimentato dall’alcool

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema pur essendo cosciente dell'inutilità.