Tre per uno. Per risparmiare tempo.

Il brillante futuro del cinema secondo le previsioni infallibili di questo blog

Oggi un post particolare. Diviso in tre. Per economizzare. Il mio e il vostro tempo. Perché si sa, sul web, il tempo è percepito diversamente, come ci ha insegnato anche Valerio Aprea in un recente e scintillante monologo, e perché, per di più, «ogni minuto sembra un’eternità», come invece ci diceva fin dalla fine degli anni Sessanta il Vate di Cellino San Marco senza che nessuno gli desse davvero retta.

Quindi, per farvi un favore, metto insieme vari pensieri che mi si sono affollati alla mente in questi giorni e senza menar tanto il can per l’aia ne parlo brevemente, evitando che diventino tre post diversi, nessuno dei quali, da solo, sarebbe stato così degno d’interesse.

Per prima cosa vi devo rendere conto di una mezza débâcle. La mia. Di Oscar ne ho indovinati solo quattro, malgrado il post precedente avesse ostentato una sicumera smentita mestamente alla prova dei fatti, un po’ come la presunta maestria di CR7 nel calciare punizioni contro la barriera, manco fosse l’equivalente postmoderno del videogioco anni Ottanta Breakout (da noi: il Muro). Ne ho predetti solo quattro e non tenterò di giustificarmi perché risulterebbe patetico, ma mentre vi invito a non seguire più questo blog dopo aver perso gran parte della mia credibilità critica, diamo uno sguardo veloce.

Miglior film Nomadland. Io avevo detto Mank e che avrebbe vinto Judas and the Black Messiah. Resto della mia idea. Mank è il miglior film e Judas and the Black Messiah è un film nero-che-più-nero-non-si-può, per niente riconciliato, che ti dice fino all’ultima inquadratura, quando intervistano il (vero) Giuda del titolo in immagini di repertorio, poche ore prima che decidesse di suicidarsi (come sfanculare in modo proditorio il concetto di spoiler), che alla fine le merde sono quelli dell’FBI e i loro metodi da cravattari der Testaccio. Certo, più comodo premiare il Green Book di due anni fa, film che pur avevo apprezzato, ma che accordava ogni contraddizione, anche quelle apparentemente più scorrette, in un pacificatore abbraccio natalizio finale (yaoooown…scusate lo sbadiglio). E per di più realizzato da un regista bianco. Nomadland è invece la normalizzazione di quella ribellione fine anni Settanta declinata su un’attualità di recessione e disillusione. C’è sempre un gran movimento lungo le highway americane (ma ci credo, cazzo, provate voi a sentire questo pezzo pomped up volume e a non pestare come matti sull’acceleratore! Lo faccio io in corso Grosseto, a Torino, e il limite è di 70 all’ora), ma non si tratta più della dromomania che ha segnato pagine memorabili della cultura americana, da Sherwood Anderson a William Least Heath Moon, è solo scazzo esistenziale di gente che ormai va alla deriva. Certo, si sa, si può fare un grande film sguazzando tra i tempi morti, fermandosi a osservare le reazioni dei personaggi, cercando di introdursi nelle loro lasche motivazioni e colorando un universo di sfumature cromatiche che rendono il mondo fantastico anche nell’era del riscaldamento globale, ma ho sempre la sensazione che Chloé Zhao sia attentissima alla superficie delle cose, ne restituisca diligentemente la forma ma mai davvero l’essenza, malgrado il tentativo di penetrarvi. Paradossalmente, il tentativo più riuscito di una filmografia che si compone di tre film, è il primo, Songs My Brothers Taught Me (in rotazione in questo periodo su Mubi [grazie Paola]), palesemente ancora acerbo, debitore di uno scimmiottamento trascendentalista simil-malickiano come per un lungo periodo neanche più Malick sembrava in grado di fare, però intenso, profondo, coinvolgente anche sul piano della forma. Non sono quindi molto d’accordo sull’Oscar come miglior regista, anche se mi fa piacere che l’abbia ricevuto la-seconda-donna-in-novantatré-edizioni e trovo sia sublime che questa stessa donna sia andata (non credo volutamente, forse è stata solo mal consigliata dalla sua stilista-vicina di casa) a ritirarlo con il peggior vestito di tutte-le-novantatré-edizioni, scardinando un bel po’ di glamour dalla tradizione del red carpet. Così come Frances McDormand, visibilmente scarmigliata. Ma con la terza statuetta, forse la meno attesa. Soprattutto da me, che l’avevo di fatto esclusa dalle mie ipotesi. Ma se poi il premio per la migliore non protagonista lo vince la nonna di Minari, al secolo Yuh-Jung Youn, allora può valere davvero tutto. Guardate il film e fatevi un’idea, se volete.

Frances McDormand ride del pronostico di (dis)Sequenze e Chloé Zhao, guardandola, rivaluta la sua mise

Come avrete ormai capito, (dis)Sequenze prende buchi o arriva in ritardo. Così come fu per il Giorno della memoria, così è anche per il 25 aprile. Perché si ferma e ci pensa. E poi decide, ma con estrema calma, se è il caso di scriverci qualcosa. Spesso decide di no, ma quando decide di sì, poi qualcosa compare. Quindi si è chiesto: ma quali sono i film imprescindibili sul 25 aprile? Questa festa che divide perché c’è ancora un enorme numero di teste di minchia che invece di leggersi un libro di Storia continua a usare il mantra che la Storia è stata scritta dai vincitori e che quindi tutto è falsato e dev’essere rivisto e revisionato (e Mussolini ha fatto anche cose buone, e le foibe? ecc. ecc.). Fottetevi (qua Stefano Massini, che lo scorso anno lo disse molto meglio di quanto non possa farlo io, anche e soprattutto per il finale liberatorio quasi quanto il 25 aprile ‘45). Con tutte le contraddizioni di questo paese folle, pressapochista e smemorato ma dall’ottima cucina, il 25 aprile è pur sempre una festa attorno alla quale coagularsi pur in assenza di Astrazeneca. D’altronde, se gli americani festeggiano il 4 luglio che alla fine, guardando bene, è stata una liberalizzazione fiscale dall’Inghilterra, noi non possiamo essere fieri dell’esserci liberati dai maledetti crucchi, evitando così di essere obbligati, in futuro, a mettere i sandali coi calzini? Ma visto che siamo il paese che siamo, pur con tutta la follia, il pressapochismo e l’Alzheimer storico che ci contraddistingue, è inutile (e anche dannoso) far riferimento a un’epica ― perlomeno cinematografica ― della Liberazione, anche perché i film epici, noi, non sappiamo farli. Sul piano del (neo) realismo, tanto di cappello (vedere come mirabile esempio l’episodio del Polesine di Paisà), ma gli epici ci vengono ridicoli e pretenziosi. Quindi, onore all’unico merito del cinema italiano: non proviamo neanche a farli (ma in compenso, come sapete, facciamo male anche molto altro, intestardendoci pure). Per cui, è fantastico ricordare la scena in cui partigiani e contadini ballano una versione di Bandiera rossa alla fisarmonica sotto un bandierone fatto di mill’altre bandiere rosse in Novecento di Bertolucci, ma l’idealizzazione, per un paese come il nostro, serve a poco, al massimo, conoscendo l’identità della Sinistra, a rivendicare chi ha la bandiera più rossa dell’altro. Quindi, è molto meglio ricordare cosa è stata la Resistenza in funzione di ciò che ne è seguito e condividere lo sguardo smarrito e affamato di Silvio Magnozzi in Una vita difficile o lo scoramento di Aldo Piscitello in Anni difficili, sempre contro durante il Ventennio e poi ancora dalla parte sbagliata dopo la Liberazione, quando tutti quelli che già aveva subìto erano diventati i protagonisti della Ricostruzione. E avendo la stessa consapevolezza di C’eravamo tanto amati, in cui il momento del passaggio veniva sottolineato divinamente con il racconto di Stefano Satta Flores, «L’Italia fu liberata, la guerra finì, scoppiò il dopoguerra». Momenti commoventi, privi di enfasi, realistici al di là dei toni narrativi utilizzati e perfettamente coscienti che tutto ciò che aveva illuso all’alba del gran giorno si è poi trasformato soltanto nella sua versione accettabile. Talmente accettabile da farci sopportare davvero tutto, dalla mancata approvazione dello ius soli alla procrastinazione delle legge Zan. Ecco, la lezione di questo 25 aprile in funzione dei film citati può essere questa: ricordiamoci SEMPRE chi siamo noi. Soprattutto per riconoscere chi sono gli altri. Anche adesso, che fanno tutti un bel mucchione al centro, gioviali e apparentemente solidali ma sempre pronti a mostrare il loro vero volto. Tra un selfie dallo sguardo bovino e un cordiale saluto mattutino sui social mentre vi chiamano «amici».

Tre partigiani a cui furono intitolate altrettante sezioni dell’ANPI di Cinecittà

In questi giorni ho visto un film francese, Un’educazione parigina, di Jean-Paul Civeyrac, realizzato nel 2018 ma uscito solo ora sulle principali piattaforme di streaming. Si prende piuttosto sul serio, Civeyrac, parla di cinema e di sentimenti con un certo piglio come se stesse dicendo soltanto verità assolute, e lo fa seguendo la parabola di Etienne, studente di Lione che si trasferisce a Parigi per seguire i corsi di cinema alla Paris 8. Girato con un sospetto bianco e nero che fa tanto arte e con più di un’inclinazione verso il cinema di Garrel (per quanto riguarda le relazioni), di Rohmer (endless speeches) e di quell’autore troppo incompreso che fu Eustache (il tono bohémien dell’esistenza), Un’educazione parigina è un film artefatto, che palesa intenzioni intellettuali ma a cui sfugge la densità della vita, mai colta alla sprovvista attraverso un piano dubbioso o un incedere imprevisto, come in Garrel ed Eustache, ma solo proposta come referente per allestire un teatro fittizio su cui costruire percorsi formativi idealizzati, pur nel loro finale fallimento. Un’educazione parigina, però, con le sue conversazioni sul cinema durante le ore di lezione universitaria, mi ha fatto tornare indietro di venticinque anni, quando partecipavo a quelle stesse discussioni durante i seminari per i laureandi (a Torino, però, non a Parigi). E mi sono rivisto nell’eccitazione per un movimento di macchina su una finestra visto dai protagonisti in Ho vent’anni di Marlen Chutsiev, nel fervore con cui gli studenti difendono la loro idea di cinema anche nei confronti della docente e nell’intransigenza con la quale i gusti cinematografici condizionano i giudizi sulle persone. Come se mi fossi guardato in uno specchio e mi fosse stata restituita un’immagine assolutamente deformata, come in un luna park. Nessuna nostalgia, nessun sorriso compiaciuto, solo un pizzico di disgusto. Per essere stato pervaso dall’idea, anche solo per un breve lasso di tempo, di appartenere a una categoria di eletti che avrebbe fatto del cinema una ragione di vita, totalmente avulsa rispetto al senso di realtà, illusa in rapporto a un mercato del lavoro che non avrebbe fatto prigionieri e un (bel) po’ sdegnosa nei confronti di chiunque si occupasse d’altro. Si chiama beata gioventù ma se supera i trent’anni è mero coglionismo. Con uno sguardo retrospettivo me ne vergogno, perché dovrei tollerarlo nei supponenti protagonisti di Civeyrac?

I tre protagonisti di Un’educazione parigina mentre vedono il mondo attraverso un film sovietico del ’65

E infine, a proposito di gioventù, una breve segnalazione. Non c’entra con il cinema ma il blog è mio e scrivo il cazzo che mi pare. È uscita Chi conosci davvero, graphic novel disegnata da Davide Aurilia e scritta dal gruppo pop rock Perturbazione, ai quali questo blog è anche simpaticamente grato per l’utilizzo del prefisso alterante che lo caratterizza nel titolo del loro ultimo album, (Dis)Amore.

Chi conosci davvero racconta dei sogni del passato, delle amicizie, degli amori e delle incomprensioni che dettano le scelte e modificano le vite come conseguenza. Fino a una seconda, forse insperata occasione. La narrazione è agile, scattante, con un linguaggio non completamente estraneo al cinema, soprattutto nelle ricorrenze di un flashback che ha la solidità di un refrain e la puntualità di un metronomo.

Per chi ama la musica e i fumetti, per chi non ha completamente regolato i conti con il passato e per chi invece li ha regolati, ma, come me, si commuove se vede citata la copertina di Zen Arcade degli Hüsker Dü (anche se il mio preferito era Warehouse: Songs and Stories, uscito tre anni dopo). Dategli uno sguardo. Merita.

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema pur essendo cosciente dell'inutilità.