Jump Cut: aprile al cinema

Ci sono soltanto tre film da vedere assolutamente in questo aprile sonnolento e dal colesterolo innalzato dopo la Pasquetta. Per il resto, potete fare anche a meno di andare al cinema. Perché, ricordatevi, andare al cinema non è obbligatorio, quando si arriva ad aprile si può anche fare una passeggiata o, se avete disponibilità, limonare in un parco, ma se proprio ci tenete ad andare al cinema, forse è meglio evitare di vedere stronzate. Di uno dei tre, As bestas di Rodrigo Sorogoyen, avevamo già parlato qualche Jump//Cut fa e quindi non ne parlerò più, al massimo vi rimando (se ne parla in basso, verso la fine). Lo so che questo blog si ripete spesso, ma non è che si possa esagerare tutte le volte. Quindi, abbiate pazienza.

Gli altri due sono film necessari. Mi vergogno a scriverlo, perché necessario è un aggettivo che non significa davvero nulla e se ne abusa, sperando di indurre all’ineluttabilità della scelta. Nulla è necessario, soprattutto quando la vita è fatta di scelte, che a loro volta si suddividono in scelte giuste e scelte del cazzo. Ecco, Leila e i suoi fratelli e La cospirazione del Cairo, pur limitandole ovviamente al solo cinema, fanno parte delle scelte giuste. Soprattutto se siete i tipi impegnati che seguono la politica estera, leggono L’Internazionale e ascoltano i podcast sulla nebulosa situazione politica egiziana o sulle manifestazioni di piazza a Teheran.

Leila e i suoi fratelli

Sapete com’è la situazione in Iran, giusto? Perlomeno ne avete sentito parlare. Se siete donna e mostrate un po’ di capelli ci sono serie possibilità che vi arrestino. Oppure peggio. Leila e i suoi fratelli non parla di questo, perché è un film precedente a questa ondata di proteste, arresti, manifestazioni e resistenze seguiti all’uccisione di Mahsa Amini nel settembre scorso, ma illustra comunque un clima. Che è così da sempre, almeno dalla rivoluzione khomeinista del biennio ’78-’79. Ossia, per riassumere all’osso: le donne sono di gran lunga le più furbe (lo sono sempre, dappertutto, mica solo in Iran: lo sapete come la penso. Fanno tutto meglio rispetto agli uomini, tranne solo due cose: giocare a calcio e guidare) e in questo caso, la donna, Leila, appunto, è anche l’unica che lavori in famiglia e con il suo stipendio mantiene quattro fratelli piuttosto pusillanimi, frustrati e incapaci, oltre che due genitori anziani e amareggiati, convinti che alla fine, sì, lei sia solo la donna di casa.

Leila e i suoi fratelli è il terzo film di un regista trentaquattrenne, Saeed Roustayi, che possiede un gusto vigoroso della narrazione: a dispetto della lunga durata del film, due ore e quarantasei minuti che potrebbero dissuadere chiunque sia convinto di non avere così tanto tempo a disposizione anche non avendo un cazzo di meglio da fare, non ha un solo istante di pausa, sia che si lanci in lunghi e (antropologicamente) illuminanti dialoghi (soprattutto quelli tra Leila, interpretata dalla diva Taraneh Alidoosti, e il fratello Alireza, forse il migliore tra tutti i fratelli, impersonato da un altro volto noto del cinema iraniano, Navid Mohammadzadeh), sia che illustri azioni dense, corali e movimentate, come la scena iniziale delle proteste contro la chiusura di una fabbrica o come la sequenza fondamentale del matrimonio verso cui tutto è finalizzato.

Leila e i suoi fratelli ha quel sapore sapido da commedia all’italiana per i conflitti che si creano all’interno del nucleo familiare, ma è solo un’apparenza, un escamotage narrativo che conduce altrove, all’osservazione di un paradosso elementare che investe un’intera cultura: essere gli unici socialmente attivi, i soli dotati di lucido raziocinio e occupare sempre una posizione subordinata, nella famiglia e nella società, nella considerazione di chiunque. Perché si è donna. Senza che si azzardi un parcheggio o si tenti impropriamente una rovesciata. Leila e i suoi fratelli è un attacco dichiarato alla logica patriarcale di un patriarcato andato a male, in cui la falsità degli individui (maschi) è la regola d’ingaggio in ogni rapporto e la ricerca sbavante di affermazione sociale va a infrangersi contro un muro perché antepone il peso della tradizione al pragmatismo della modernità. Un film da vedere anche come dimostrazione del fatto che in Iran non ci triturano più le palle con bimbi, palloncini e metacinema (perlomeno non più con la stessa frequenza di prima, ad eccezione di Jafar Panahi), ma che un cinema più maturo, ancorato davvero all’osservazione critica delle mille contraddizioni del paese è davvero possibile. Pur con tutte le difficoltà.

La cospirazione del Cairo

Tarik Saleh è un regista nato a Stoccolma di orgine egiziana. A causa del suo precedente film, Omicidio al Cairo, l’unico fino a oggi ad aver avuto un’ampia distribuzione anche italiana, in Egitto non può entrare, è persona non grata, e non sa il culo che ha, perché la cosa difficile, in Egitto, se non ti fai i cazzi tuoi, è uscirne. Per questo motivo ha girato La cospirazione del Cairo a Istanbul e sfido chiunque non sia nativo del Cairo o non abbia scritto la Guida del Routard del posto ad accorgersi della differenza.

Quest’ultimo film, La cospirazione del Cairo, nasce da una premessa particolare: quando muore il grande Imam della prestigiosa università al-Azhar, fondata nel 972 ed eccellenza negli studi dell’Islam sunnita (la conoscete la differenza tra sciiti e sunniti, tra quelli che seguono la regola di Alì, il genero di Maometto, e gli altri che si regolano sulla Sunna, il libro di norme più importante dopo il Corano, no?), i servizi di sicurezza del governo di Al-Sīsī cercano di influenzare l’elezione per avere il controllo dell’istituzione, cosa mai avvenuta nella storia millenaria dell’università, malgrado i ripetuti tentativi. Un giovane e promettente studente, Adam (Tawfeek Barhom), proveniente da un paese di pescatori, è incastrato e obbligato a fare da informatore per i servizi, con la consapevolezza che il suo operato, prima o poi, non sarà più necessario (in questo caso necessario ha un’altra accezione).

Per scrivere l’accurata sceneggiatura, pare che Saleh si sia ispirato a Il nome della rosa, ed effettivamente l’intreccio ha più di qualche debito con il romanzo di Eco, anche se il marcio lì era tutto interno, frutto di una condanna fondamentalista del riso, mentre qua, ne La cospirazione del Cairo, siamo in presenza di un’inquietante commistione dialettica tra ciò che vorrebbe restare autonomo e neutrale e l’ingerenza di uno Stato che nell’ultimo decennio abbiamo imparato a conoscere, perlomeno di riflesso, grazie a un’opera costante di depistaggio e insabbiamento delle proprie responsabilità politiche e morali.

Girato come un thriller dagli accenti hitchcockiani (soprattutto per quanto riguarda il tema dell’innocente inserito in una realtà soverchiante in cui deve sopravvivere contando solo su se stesso; ma anche nel tentativo di rendere la suspense un fatto di stile, giostrando sull’alternanza tra grandi e spettacolari distanze e funzionali riprese claustrofobiche), il film ripone gran parte del suo significato sul duplice valore della verità, su quell’interstizio decisivo esistente tra la realtà effettiva e quella ufficiale, dichiarata e resa cronaca. Tra ciò che è successo davvero e ciò che invece viene divulgato. Il protagonista, Adam, cerca di districarsi in una situazione molto più grande di lui usando soltanto l’intelligenza e l’ardita capacità di manipolare la parola, con le quali riesce a restare faticosamente a galla, rivelando contemporaneamente (ma solo a se stesso e al pubblico) le contraddizioni dell’oppressivo sistema. E anche i limiti, perché il confronto con la sicurezza interna del Governo, al di là delle consuetudini e della tensione peculiare del genere, si consuma tutto sulla qualità della parola, sul modo di interpretare le frasi, sulla capacità di dire la cosa giusta nell’istante giusto o di evitare di dirla per non incorrere in guai peggiori. La parola utilizzata dal protagonista rimpalla tra quella rivelata (la Sunna) e quella occultata (dai servizi) per garantirsi quantomeno la sopravvivenza, non la libertà. Che in una società così codificata, politicamente e religiosamente, non è certo un’opzione possibile.

Saleh entra nelle trame nascoste del potere, suggerendo una prospettiva inquietante: la verità è fin troppo evidente, è la sua versione ufficiale ad essere modulata in funzione dell’uso che se ne intende fare. Impossibile non pensare a quanto successo al povero Giulio Regeni, che è il modo con cui in Italia siamo entrati in contatto con le oscure trame del potere egiziano. Forse però bisognerebbe cambiare lo slogan dei manifesti che campeggiano in tutte le città italiane: la verità per Giulio è chiara, è la sua ufficialità che non verrà mai rivelata.

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema pur essendo cosciente dell'inutilità.

2 Risposte a “Jump Cut: aprile al cinema”

    1. Lette le due recensioni sul tuo blog: difficile non essere d’accordo, come in altre occasioni.
      Utile anche la rassegna stampa, malgrado non sia d’accordo con la “regia grezza e scolastica” di Saleh che lamenta Paola Casella su MYmovies.
      buone visioni!
      grazie della tua visita, ciao!

I commenti sono chiusi.