Una cosa divertente che (forse) non farò mai più

L’altro giorno, il 19 aprile, ho partecipato a una cosa molto divertente.

Sono stato invitato a dire un paio di cose sulla Critica e sulla storia del cinema nel corso di Made in Cine, una trasmissione in diretta su YouTube, organizzata dall’IIS Bodoni-Paravia, un istituto superiore di video, fotografia e grafica multimediale, qua, in questa città a vecchia vocazione industriale ormai smarrita e ora a nessuna vocazione, in collaborazione con la Cineteca di Milano e il Ministero dell’Istruzione e del Merito (quale più sublime contraddizione per la quasi totalità dei membri di questo governo?).

Non vi voglio raccontare la trasmissione, non temete. Andare in giro a parlare di critica e di cosa sia è una cosa che faccio spesso. In pratica m’invitano per parlare del nulla. Anche perché la critica si può discutere ma di sicuro non si insegna. Ricordo che anni fa tenni a Milano una parte di un corposo corso sulla scrittura critica. Io mi occupavo della parte saggistica, Alberto Pezzotta del «Corriere della Sera» di quella sui quotidiani e Mauro Gervasini, all’epoca direttore di «Film Tv», della sezione di critica sui settimanali. Bel corso, divertente. Solo che era fuffa. Ma non lo dico adesso che è passato un sacco di tempo, lo ammisi davanti agli allievi fin dall’introduzione alla prima serata, per onestà: «Vi stiamo fottendo i soldi. La critica non s’insegna, perché non puoi insegnare uno sguardo e una disposizione. Guardatevi intorno, guardate dappertutto, non solo i film, ma soprattutto leggete, leggete, leggete, leggete. E non seguite questi corsi, ché magari sono anche tenuti da gente simpatica, capace di farvi svagare dopo una giornata di duro lavoro milanese [creativo, ma deontologicamente austriaco], ma che in realtà non vi può dare niente di niente». Grasse risate, allievi immediatamente agganciati. Ma io dicevo solo la pura verità. Poi riempii la mia dichiarazione nichilista con lezioni colme di teoria, di storia, di proposte di osservazione, ma fondamentalmente confermai che la mia premessa era ancora impietosamente valida. Sto esagerando? No. Prova ne sia, infatti, che alla fine del corso nessuno dei presenti consegnò la sua prova saggistica. Bravi, era la dimostrazione che il corso aveva funzionato davvero.

Tornando alla trasmissione dell’altro giorno, però, pronti-via, la brava e simpatica conduttrice, Adriana Toppazzini (l’altro presentatore era Umberto Mosca, volto storico della media education torinese), mi ha chiesto una cosa da un milione di dollari: qual è la funzione del critico.

Sono vecchi amici, non volevo creare il panico fin dalla partenza. Allora, invece di dire le cose ovvie che dico sempre, ho pensato di rendere il tutto indicativo con un breve video di trenta secondi. È l’inizio di Marnie di Alfred Hitchcock. Ma nella trasmissione è successo l’imponderabile. Il video non è partito, la regia non lo trovava per un errore nelle cartelle scaricate.

Visto che non si riusciva a recuperarlo e la diretta è sempre impietosa, non solo perché mostra rughe e indecisioni, ho improvvisato e la scena l’ho raccontata, anche se, come vedrete, non è che ci sia molto da raccontare. Abbiate la compiacenza di guardare brevemente il contributo video qui sotto (30 secondi: dài, ce la potete fare), giusto per capire di cosa stiamo parlando. E visto che non sono riuscito a spiegare adeguatamente il concetto nella trasmissione, tento di farlo qui.

Non succede niente, vero?

Ed è quello che ho raccontato. Una bruna con una borsa gialla e una valigia cammina lungo la banchina di una stazione dei treni. La vediamo di spalle. Aggiungiamo ancora qualcosa: la ripresa è in continuità e parte dal dettaglio della borsa fino a fermarsi a osservare la donna che giunge a una ventina di metri di distanza, lungo la profondità di campo.

Il pubblico medio vede la stessa cosa che ho raccontato. Una donna misteriosa carica di bagagli cammina lungo i binari.

Il pubblico più avvezzo alla visione vede l’intrigo dietro il personaggio, ipotesi confermata dal fatto che il volto è tenuto nascosto e che subito dopo questi trenta secondi si capirà che il bruno dei capelli in realtà è di una parrucca. Dove va così carica questa donna? Perché è su un binario frequentato da nessun altro?

Quelli ancora più attrezzati vi vedranno un’attenta composizione del quadro, delineata dalle linee di forza che convergono verso il punto di fuga per fornire una traiettoria che è metafora di un destino.

Il critico invece ci vede una vagina. Se il critico è bravo, è questa la differenza con tutti gli altri spettatori: le persone tendenzialmente la vedono dovunque, lui la vede solo quando è necessario vederla. Guardate bene il dettaglio della borsa: guardate la piega dell’apertura.

Non pretendo che facciate i conti con i recessi della vostra memoria, però sì, è lei. Decisamente. Seppur stilizzata, vista in una certa prospettiva, è fatta così.

Per di più la borsa è gialla e il giallo, per Hitchcock, nel film e non solo, è il colore del desiderio sessuale. Marnie è bionda e ha una parrucca nera. Cerca di stornare il desiderio erotico. Perché è frigida, ha patito un trauma (nell’infanzia, come si vedrà dopo). Inoltre la borsa vulvesca la porta sottobraccio, è con lei ma fuori di lei, in un rapporto metonimico che esalta la dimensione dissociata patita dalla protagonista a causa della sfera sessuale.

Bello, eh? Mi sarebbe piaciuto da matti essere l’autore di questa folgorante interpretazione, che invece è di Jean Douchet nella sua celebre monografia su Hitchcock. Onestamente gliela invidio: io sono solo arrivato a scrivere un intero pezzo sulle conseguenze teoriche e comunicative di una scheggia rimbalzata volutamente sull’obiettivo della macchina da presa in Desperado di Rodriguez, quando ancora non era possibile farlo con gli effetti digitali. Ossia un altro mondo fa.

La critica, alla fine, è questo: vedere quello che gli altri non vedono e porgerlo a chi ha una visione parziale. Guardare oltre la superficie delle immagini, possedendo quelle conoscenze specifiche che sono patrimonio di un’ampia cultura personale. Non che non vedere il sesso in questa apparentemente innocua breve scena sia un dramma: i film, soprattutto quelli fatti bene, hanno mille strati, come le cipolle, e si possono apprezzare lo stesso anche non notando le sfumature. Ma se siete maniaci del controllo e vi piace capire tutto, ma tutto tutto, per non lasciare niente al caso e magari scoprirlo dopo con un grande ohibò stampato sul volto, forse vi conviene leggerlo nell’ultimo modo proposto, alla maniera di Douchet. Oppure ascoltarlo da chi lo sa leggere in quel modo. Affidatevi, anche se siamo nell’era dell’«individualismo di massa», come dice Baricco in The Game, e se non partecipate in prima persona vi sembra di non aver apprezzato davvero il film.

Lo so che in questo mondo di tutti influencer è difficile accettarlo. Però, pensateci. Non è male: c’è qualcuno che fa il lavoro sporco per voi.

E pensate anche a un’altra cosa. Soprattutto quando dico che la critica non si può insegnare: ve lo immaginate se fossi andato davanti all’uditorio milanese all’inizio del corso dicendo «Ebbene, diventerete critici solo nel momento in cui dentro a un’inquadratura riuscirete a vedere la figa»?

Chissà cosa avrò visto per meritare questo sottopancia

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema pur essendo cosciente dell'inutilità.

4 Risposte a “Una cosa divertente che (forse) non farò mai più”

    1. Se guardi oltre la superficie, ti si aprirà un mondo.
      Anzi, c’è proprio un momento in cui, verso la fine, la simbologia della borsa ti tornerà molto utile. 😂😂😂

I commenti sono chiusi.