La storia del cinema per chi va di fretta

Ho degli allievi molto simpatici e, spesso, mi danno molta soddisfazione. Alcuni di loro leggono romanzi e si confrontano con me rispetto ai libri che leggono. Mi fermano nei corridoi per chiedermi cosa ne pensi di Chuck Palahniuk o Anthony Burgess o del perché dovrebbero leggere quel romanzo di Patricia Highsmith che qualche tempo prima non erano riusciti a finire. Buon segno. Vuol dire che l’attardarmi a rendere appetibili con una certa ipocrisia Parini e Alfieri non ha estinto completamente in loro l’istinto alla curiosità della lettura. Mi sento meno in colpa. Altri invece desiderano farsi una cultura cinematografica. Bello, no? Sì, bello. Ancor di più perché sembra scontato ma in realtà non lo è affatto. Mi ha commosso l’idea che tre ragazzi della mia quarta, qualche tempo fa, avessero trovato un locale che proiettava Il settimo sigillo di Bergman e che si fossero organizzati per uscire la sera per andarlo a vedere (poi non ci sono riusciti, perché uno dei tre è stato male e il gruppo si è disgregato, ma l’intenzione è ciò che conta: ci riusciranno, magari con un altro film, quando tutti saranno in forma). Occhio, non minimizzate. Non pensate che sia una cosa così banale uscire per andare a vedere un vecchio film. Lo era per noi e non so neanche quanti di noi lo avrebbero fatto a 16/17 anni. Ora no. Perché questa è una generazione che se desidera guardarsi un film lo trova su una piattaforma o se lo scarica. Inutile inarcare le sopracciglia. È così. Per loro, il grande schermo è il televisore. L’abitudine spesso il tablet. La praticità lo smartphone. La disparità visiva generazionale tra noi e loro non è nella mancanza d’interesse (non avete mai conosciuto caproni ai vostri tempi?), quanto nel concetto di dimensione, nell’accezione ambivalente di grandezza del dispositivo di fruizione e di eccesso di offerta e quindi di disponibilità.

L’equazione non è immediata, nonostante le apparenze: una possibilità potenzialmente illimitata di reperire i film non è sinonimo di cultura organica. Tutt’altro. Può sicuramente essere un vantaggio, ma non è semplice orientarsi. Non voglio fare il noioso nostalgico, cerco solo di riportare elementi utili a un confronto, ma ricordo i tempi eroici in cui scovare un film fondamentale della storia del cinema in VHS o nelle interminabili nottate di “Fuori orario” su Raitre o durante un festival o anche in una rassegna del Museo del cinema qua, nella solita città a vocazione industriale ecc. ecc., fosse un’autentica conquista. Come una pepita scovata in un ruscello. E tra una conquista e l’altra si aveva tempo di pensare, di riflettere e di sistematizzare. Banalmente, di far sedimentare. Ricordo anche la gallina dalla uova d’oro che avevo trovato insieme a un ristretto gruppo di miei compagni di studi in un locale del quadrilatero romano, perché la città a vocazione industriale, diversi secoli prima di smarrirla, quando ancora le popolazioni locali si grattavano il culo, era un accampamento delle truppe del neonato impero: noi gli animavamo le serate con rassegne di film, presentazioni, proposte eccentriche e in più gli scrivevamo una fanzine eroica (la vedete qua sotto); loro in cambio ci offrivano qualche birra (dopo le prime due volte furono limitate a un solo giro gratuito, potete immaginare agilmente il perché) e ci permettevano di accedere liberamente alla loro vastissima videoteca storica. Un paradiso. La biblioteca di Alessandria sopravvissuta all’incendio. Le visioni più entusiasmanti della mia vita, perché davanti mi si schiudeva un mondo altrimenti difficilmente accessibile.

Il primo numero di «Kinocamera» (in realtà il secondo: c’era stato un numero 0). Imbevuti com’eravamo di ideologia godardiana, gli articoli non erano firmati, perché il lavoro era del collettivo, ma se li rileggo, i miei dovrei riconoscerli con buona approssimazione. 😉➡️

Certo, ora l’accesso alla moltitudine di titoli è più semplice. Pensiero, volontà e atto stesso della visione il più delle volte coincidono, mentre prima s’interponeva un filtro fatto di desiderio e aspirazione che non sempre rendeva tutto immediato. Non era male, quando ci si imbatteva nell’oggetto del desiderio, magari dopo anni di ricerca, e la visione diventava spesso un atto liturgico per pochi adepti, con il rischio di percepirsi come degli eletti e di impossessarsi di un tagliando premium per l’iscrizione all’urticante club degli stronzoni snob. Perché ti facevi il culo per trovare il film che t’interessava. E la fatica era ripagata dalla fierezza di aver compiuto la missione. Il vantaggio, forse l’unico, era però di percepire nettamente l’obiettivo, il tracciato compiuto per giungere a quel preciso film, che metteva le tessere al loro posto, permettendo di rendere lineare e completa l’idealità di un percorso dapprima curioso e poi perfettamente consapevole.

La coincidenza tra pensiero, volontà e atto della visione è un bene solo se assunto nella giusta prospettiva. Perché potrebbe non esserlo. Il numero esorbitante di stimoli e proposte a cui si è sottoposti è solo in parte bilanciato dalla possibilità di vederli soddisfatti. L’immediatezza con cui si appaga la propria curiosità ha spesso sottratto sacralità alla visione. Il rischio è che I racconti della luna pallida d’agosto valga Hunger Games, che non è una cosa sbagliata in valore assoluto, ma solo se procura un inconciliabile problema rispetto alle priorità e alle necessarie gerarchizzazioni.

Alcuni degli allievi di cui sopra sono in grado di consigliarmi tutto il catalogo di Prime Video e Netflix, anche con discreta e innata consapevolezza critica, ma ignorano totalmente il passato, ciò che è successo prima di arrivare alle produzioni attuali. E quando si arrischiano a conoscerlo, lo fanno il più delle volte impulsivamente, sull’ondata emotiva di una spinta, di qualsiasi tipo, dal consiglio estemporaneo, ai film di culto di un amico più grande, di un familiare, a un video visto casualmente che li incuriosisce. Niente di male, per carità; quando però mi sottopongono le liste che ammirevolmente stilano per recuperare il tempo perduto, mi fa effetto vedere che Fast X compaia ben prima de Il padrino e che non sia citato nessun film di Hitchcock, neanche Psycho, che Truffaut sia un completo sconosciuto, che Scorsese venga limitato al solo Killers of the Flower Moon e Tarantino sia unicamente Bastardi senza gloria.

La mancanza è solo organica e investe metodo e percezione del presente in funzione di un possibile campionario. Un mio allievo è andato oltre la lista e mi ha chiesto consiglio riguardo a video che spieghino con coerenza l’intera storia del cinema. Eccolo il vulnus: loro sono arrivati al dunque naturalmente, senza porsi un problema epistemologico su cui alcuni riflettono da tempo. La nostra generazione la storia la studiava sui libri; per la Generazione Z è inconcepibile studiare un medium con un altro medium per tornare al medium che si vuole conoscere. Il passaggio può essere solo diretto. «Voglio conoscere la storia delle immagini e la cosa ovvia è che siano le immagini a farmela conoscere». Non fa una grinza. Sono anni che ripeto che un vero strumento per la conoscenza del cinema non possa prescindere da un prodotto multimediale basato esclusivamente su link a filmati, sequenze, scene, mashups su aspetti storici, stilistici e contenutistici. Senza parole, fatto solo di riferimenti, indicazioni a un database potenzialmente infinito. Un’Infinite Jest.

Parlando e cercando di scavare in una comunque legittima motivazione, tuttavia, si scopre che una delle molle della scelta non è dovuta a una coerenza ermeneutica, quanto a un’economia di pazienza e concentrazione. Video = immediatezza; libro = noia e raccapriccio. Fatica e perdita di tempo. A quel punto non puoi più indirizzare nessuno su testi di comunque rapida presa grafica e informativa, del tipo 100 idee che hanno fatto la storia del cinema di David Parkinson o I 100 film che sconvolsero il mondo di Gianni Canova, perché sono pur sempre pagine e pagine, benché condite da foto intriganti; e non puoi nemmeno consigliare la visione di The Story of Film: An Odyssey di Mark Cousins: non tanto perché non ne condivida la logica impressionistica, i collegamenti arditi e l’entusiasmo verso il genio non sempre motivato ― resta pur sempre un’opera di grande fascino di cui rispetto profondamente l’enorme mole di ricerca ― ma soprattutto perché dura 915 cazzo di minuti divisi in 15 puntate. Per un adolescente oggi è come ricopiare la Bibbia versetto per versetto con la mano sinistra. Altro che video riassuntivo sulla storia del cinema. Certo, si sciroppano in binge watching intere stagioni di serie tv in un paio di giorni, ma il coinvolgimento in quel caso fa miracoli. Non è la stessa cosa con un documentario.

Il tempo di attenzione è quello che è. Tenete conto che la soglia di concentrazione odierna in media è 8 secondi (e qualcuno di voi potrebbe obiettare: «ma allora, se lo sai, perché cazzo ci ammorbi con ‘sti pezzi-fiume?», ma mi rincuora sapere che se davvero siete anche voi così, fin qui non ci siete arrivati), la pubblicità setta i suoi messaggi su spot di 7, 15 e 30 secondi (non di più) e che spesso i giovani assumono contenuti a 2x perché lo scopo non è apprendere, ma fare incetta di informazioni in maniera inversamente proporzionale al tempo. Nell’epoca dell’Ipertempo propria dell’Iperconnessione bisogna inserire in una sola unità di tempo presente la massima quantità di scambi, di comunicazione, di acquisti, di divertimento, di piacere e di utilità. L’ossessione è il vanto di «non aver perso tempo». Non sono certo io a dirlo, è Pascal Chabot.

Come pensare ci si possa dedicare a un libro che renda conto di un percorso articolato e tutt’altro che lineare lungo quasi 130 anni? Come pretendere attenzione rigorosamente critica guardando un documentario lungo oltre 15 ore? Non abbiamo tempo, andiamo di fretta. Questa non è neanche più l’era del riassunto, è quella della condensazione. Estrema.

E allora mi è venuta in mente la fine di Babylon, quando nel dormiveglia Manny Torres “proietta” su uno schermo di una sala di Los Angeles l’essenza del cinema in ordine cronologico, dalla cronofotografia di Muybridge alla tridimensionalità di Avatar. Nelle intenzioni (duplici) di Chazelle è sia un flashforward (nel film), sia un omaggio alla sua personale formazione cinefila. Come segno di questi (iper)tempi, il modo in cui dev’essere recepito è però lungo un asse più funzionale e meno simbolico, cioè come pratico compendio, allucinato e commovente, dell’intera storia del cinema per chi va troppo di fretta. Probabilmente sarà carente di qualche emozione, ma con oltre un secolo distillato in due soli minuti, dal punto di vista del risparmio dei tempi non ha sicuramente eguali.

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema pur essendo cosciente dell'inutilità.

2 Risposte a “La storia del cinema per chi va di fretta”

  1. Sempre illuminante, si ha la certezza leggendo di «non aver perso tempo»… Grazie!

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