Nino Manfredi uno, due, tre

Avrebbe compiuto cento anni ieri. Inizia così ogni omaggio secolare quando ci si ricorda di scriverlo in tempo. Cioè non questa volta. Il 22 marzo del 1921 nasceva infatti Saturnino Manfredi, più noto come Nino. Manfredi è stato indubbiamente uno dei volti più rappresentativi della commedia all’italiana, l’ultimo grandissimo filone realizzato in questo cinematograficamente stitico paese. Il suo era il volto disincantato, spiazzato dalla vita e dalla varietà delle situazioni, e per questo spesso soccombente. L’emblema di un martirio popolare pronto ad adagiarsi sui flussi delle circostanze, sempre con un sorriso sardonico stampato in faccia, anche quando la vita riprende il sopravvento. 

Sarebbero molti i momenti indimenticabili da ricordare, in un’ideale galleria antologica. Qua abbiamo deciso di limitarli a soli tre, facendo anche un grande sforzo di cernita. Li limitiamo a tre sapendo che non comparirebbero in qualunque ideale antologia della sua recitazione, perché episodi meno riconosciuti di pellicole particolarmente riuscite in cui altri sono i momenti indimenticabili. Ma sono tre momenti simili, completamente muti, in cui tutto ruota intorno a un’eccellente espressività facciale e corporea che ancora più delle battute, dette con la precisione di un metronomo ma predisposte da sceneggiature sempre puntuali e scoppiettanti, danno una misura possibile, alternativa, di ciò che è stato davvero Nino Manfredi (li potete vedere uno di seguito all’altro nel breve video alla fine).

Momento 1. Per grazia ricevuta (1971).

Benedetto è stato miracolato da bambino e ne porta la scomodità del peso anche nell’età adulta. Vuole emanciparsi da una religione che ha permeato ogni singolo aspetto della sua vita, costringendolo a diventare una persona emotivamente inadeguata, ma ogni suo tentativo si scontra con il principio pasoliniano secondo il quale chiunque, in Italia, è antropologicamente cattolico, anche se non credente. S’illude di aver trovato un mentore in un vecchio farmacista anarchico, ateo e anticlericale, della cui figlia crede di innamorarsi, probabilmente però solo per il fatto che è sua figlia. Ma anche l’inflessibile farmacista, in punto di morte, si piega a baciare una croce. Non resta che suicidarsi, per sfuggire a quella che è avvertita come una condanna, perseguendo il peccato per eccellenza, la negazione della vita. Ed è in questa breve scena che la commedia all’italiana mostra apertamente quali siano le sue prerogative, in che modo il drammatico, sottolineato anche dalla partitura musicale e dall’inequivocabile espressività della maschera sconvolta di Manfredi, si pieghi al grottesco di una situazione lunare, in cui un vecchio motivo caro alla narrazione fin dai tempi di Edipo e Fra’ Cristoforo si trasforma in una scena talmente surreale da far scaturire la risata sul bordo di un abisso di tragicità.

Momento 2. C’eravamo tanto amati (1974).

Immediato Secondo dopoguerra. Nicola ha raggiunto Antonio a Roma in cerca di uno sbocco professionale dopo aver lasciato Nocera Inferiore perché «popolata da gente ignorante e reazionaria», incapace di comprendere la freschezza politica di un capolavoro come Ladri di biciclette. Nicola è un insegnante e un critico cinematografico fallito (ohibò!) e tale rimarrà ma è imbevuto di alti ideali sociali e culturali che cerca di condividere con l’amico Antonio, portantino in ospedale, comunista disincantato, con cui ha condiviso la lotta partigiana prima che l’Italia entrasse in un circolo vizioso di contraddizioni che hanno investito gli indirizzi e i mille rivoli di una sinistra alla perenne ricerca di un’identità. Se qualcuno volesse davvero capire cosa sta succedendo adesso al PD, i mille perché dell’imbelle Zingaretti, la commovente illusione di cui si è ammantato Letta e anche i precisi disegni opportunistici di chi ha sempre usato il partito e l’ideologia (pur negandola) per il proprio tornaconto, rinverrebbe l’origine di tutto proprio in C’eravamo tanto amati. Fatto sta che Nicola arriva a Roma e i suoi ridondanti discorsi culturali si scontrano immediatamente con la scontrosità di una città impietosa e grezza, palesando il vero volto di una realtà dura e cruda, molto differente da quanto idealizzato a Nocera. Il pragmatico Antonio si pone subito a difesa dell’amico, senza dire una sola parola, al contrario del ciarliero Nicola, frapponendo il suo corpo come argine di quell’esuberanza popolaresca di cui pur fa parte. È sufficiente uno sguardo al cielo per far comprendere quello che potrebbe succedere se solo si volesse, ma il suo sguardo è una rivendicazione di cittadinanza, il compassato codice convenzionale attraverso cui si sopravvive all’interno di una quotidianità brusca e impietosa.

Momento 3. Pane e cioccolata (1974).

Giovanni Garofalo ha fallito. Ha mollato la moglie e il figlio al paesino ed è andato in Svizzera alla ricerca di fortuna. Giovanni, anche lui detto Nino, ha pure una sfiga di portata cosmica perché s’imbatte prima nel cadavere di una bambina uccisa da un folle, poi è fotografato mentre piscia in un angolo, crimine capitale in Svizzera, e per questo perde l’occasione di essere assunto in un prestigioso ristorante ginevrino in cui era in prova. Da quel momento si avvita in una spirale che lo porta a sfiorare addirittura una condizione subumana (la scena pazzesca della famiglia italiana che vive in un pollaio) e a smarrire qualunque identità nel momento in cui finge grossolanamente di essere svizzero, puntando a un’integrazione truffaldina che gli fa perdere qualunque residuo di dignità (l’altra fantastica scena della partita della Nazionale vista in un locale in cui si fa ovviamente il tifo contro l’Italia – si tratta di Italia – Inghilterra del 14 giugno 1973. Finirà 2 a 0 con gol, guarda caso, di due juventini, Anastasi e Capello; in particolare, quest’ultima sarà la rete che nel film farà esplodere Nino nel celebre urlo di riscatto per la sua italianità mortificata durante tutta la partita). Giovanni Garofalo ha fallito, si diceva e, stanco di lottare, sale sul treno per ammettere la sconfitta davanti a tutta la sua famiglia. Ma in quello stesso scompartimento, una versione sguaiata di Simmo ‘e Napule, Paisà! lo risveglia dal sonno e lo fa letteralmente boccheggiare, probabilmente pensando alle prospettive che lo attendono al paese. Giovanni annaspa, pare avere fame d’aria, viene sommerso. Non parla, ma i suoi occhi, vivissimi, esprimono tutto su quell’Italia, madre e sorella, culla e insieme tomba, triviale e intollerabile.

Tre piccole scene in cento anni sembrano un po’ poche per il ritratto completo di un attore quale è stato Manfredi. Ma questa non è una monografia o un post celebrativo, è solo un grazie. Per le risate che ci siamo fatti pur avendo il sospetto che alla fine Nino stesse parlando soprattutto di noi.

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema pur essendo cosciente dell'inutilità.

Una risposta a “Nino Manfredi uno, due, tre”

  1. grazie. per l’emozione del leggere e per la commozione del guardare.

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