Il rosa e il nero: gli Oscar 2021

A pochi giorni da una delle notti degli Oscar più insolite di tutti i tempi, anche solo per il fatto che si tiene un mese e mezzo dopo il periodo abituale, avendo in lizza soltanto titoli visti sulle piattaforme di streaming, torniamo a giocare come l’anno scorso, cercando di indovinare le statuette dei premi più rilevanti. Nella scorsa edizione ne presi sette su dieci e scommisi che sotto i cinque avrei chiuso il blog. Così non è andata, ma la sorte non va sfidata in continuazione, perché alla fine un proiettile nel tamburo lo trovi sempre, per cui quest’anno non scommetto. Che gusto c’è?, direte voi. Be’, innanzitutto è pur sempre una faccenda di credibilità, ma non metto di nuovo in palio il blog, che tanto, poverino, già viene aggiornato solo quando è il caso e non sempre, ahimè, sembra il caso, e poi, sia detto in totale confidenza, la volta scorsa si è anche risentito.

Dunque, Notte degli Oscar, come al solito preceduta da polemiche. Un po’ lasche, quest’anno, forse perché diluite in più tempo a disposizione. A ben guardare, le solite. Donne discriminate e neri invece anche. E in funzione delle polemiche il gioco si comporrà di due aspetti: da un lato diremo chi meriterebbe la vittoria, come miglior film, miglior attore ecc.; dall’altro tenteremo di azzeccare chi vincerà in funzione delle solite polemiche, molto spesso giustificate, ma che, come abbiamo già detto in questo stesso spazio, Hollywood, avendo la faccia come il culo, tacita elargendo munificamente premi di consolazione.

Miglior film. Il miglior film è Mank. Possiamo discuterne per ore in cui parlereste da soli perché tanto rimarrei della mia idea. Perché Mank è il cinema che si rispecchia nella sua fase più rigogliosa, scoprendo di essere Narciso. Può infastidire per la sua velocità di esecuzione, ma se entri nel gioco e cogli tutti i riferimenti, è un viaggio sulle montagne russe sollecitate ulteriormente da un costante solletichio erotico. Molto apprezzabile è anche The Father, di cui ho parlato qui, che pare esca in Italia (ma quando non si sa) con il delirante titolo Nulla è come sembra e per questo motivo spero che il titolista responsabile patisca la tortura del Tulipano rosso, visto che un titolo del genere di fatto spoilera il significato dell’intero film (cos’è il Tulipano rosso? Eh, non so se sia il caso di raccontarvelo: diciamo che è termine caro ai mujaheddin che impacchettavano con la loro stessa pelle risvoltata i soldati sovietici catturati durante la guerra in Afghanistan, alla fine degli anni Settanta). Ma vincerà Judas and the Black Messiah, perché il risarcimento di cui sopra toccherà agli afroamericani e alle donne registe e Una donna promettente ha già fatto molto (fin troppo, forse) arrivando alla nomination. Quella di Judas non è una scelta inconcepibile, perché si tratta di un ottimo film che tuttavia, in tempi normali, ben difficilmente avrebbe potuto ambire al riconoscimento. Ma cosa significa ormai normale? Qualcuno se lo ricorda?

Miglior regista. Due donne candidate su cinque sfidanti, ed è la prima volta. O le donne vincono stavolta o non vincono mai più. Per loro (le donne, intendo) si tratta della sesta e della settima nomination in novantatre edizioni. Set-te-su-no-van-ta-trè. Francamente una miseria inspiegabile razionalmente (le altre: Lina Wertmüller, che fu addirittura la prima, come se prima di lei ci fosse solo il diluvio, Jane Campion, Sofia Coppola, Greta Gerwig e Kathryn Bigelow, che però fa un cinema molto più maschile degli uomini con cui si è confrontata e infatti è l’unica di questa lista ad aver vinto l’Oscar, con The Hurt Locker). Di nuovo, il miglior regista del lotto è David Fincher, anche perché risulta sempre complicato sganciare il miglior film dalla migliore direzione artistica. Se fosse un cavallo, sarebbe migliore di almeno cinque incollature rispetto a Chloé Zhao (per Nomadland), che fa del cinema sensibile, totalmente declinato in un’ottica umanistica e vagamente trascendentalista che però giustifica solo fino a un certo punto l’opera di canonizzazione che sta vivendo. E supererebbe di almeno dieci altre incollature Emerald Fennell per Una donna promettente, la quale, dal canto suo, continua a chiedersi ogni santo giorno come abbia fatto ad arrivare fino a giocarsela nella notte decisiva pur essendo alla sua opera prima. Ma Chloé Zhao potrebbe vincere. Non sarebbe un verdetto giusto ma nella logica attuale potrebbe davvero accadere.

Miglior attore protagonista. È Anthony Hopkins, al netto di un piccolo eccesso istrionico nelle ultime fasi di The Father che lo porta a marcare la sua parabola esistenziale con una regressione estrema, ma l’Oscar sarà postumo e toccherà a Chadwick Boseman per il ruolo del trombettista inquieto in Ma Rainey’s Black Bottom. L’ultimo ruolo della sua vita. Scusate il cinismo.

Miglior attrice. Comunque si scelga, si pesca bene. Bene per Andra Day, una Billie Holiday colma di charme e autolesionismo in The United States vs. Billie Holiday. Bene per Viola Davis, matrona dal carisma esondante in Ma Rainey’s Black Bottom. Bene per la Carey Mulligan dall’evirazione facile in Una donna promettente. Benissimo per Vanessa Kirby, anche fosse solo per l’iniziale, insostenibile e interminabile piano-sequenza del parto in Pieces of a Woman. Benino per Frances McDormand a cui va un po’ stretto il basso profilo di Nomadland, soprattutto ricordandola in Fargo o in Tre manifesti a Ebbing, Missouri. Ma vincerà una delle prime due.

Miglior attore non protagonista. Punto su Daniel Kaluuya per Judas and the Black Messiah, benché anche LaKeith Stanfield nel ruolo del Giuda dello stesso film…

Miglior attrice non protagonista. Glenn Close per Elegia americana, che sarebbe un film piuttosto divertente se non fosse totalmente discutibile per tutto ciò che non dice sull’America zo(o)tica che ha prodotto Trump. Glenn Close sembra ripiegata su se stessa e sulla sua inesauribile sigaretta, ma sprigiona un’energia irresistibile che pare smuovere banjos e fiddle ad ogni ancata. Occhio anche a Olivia Colman per The Father, che già vinse due anni fa per La favorita.

Miglior sceneggiatura originale. Potrebbe essere quella di Aaron Sorkin per Il processo ai Chicago 7, sicuramente l’unico elemento di interesse di un lavoro che può abbagliare e candidarsi impropriamente a miglior film proprio per merito della sua scrittura. Ma per i motivi ampiamente accennati, può spuntarla Judas and the Black Messiah.

Miglior fotografia. Fosse per me, lo darei a Dariusz Wolski, che rinverdisce i fasti monumentale del western classico con l’esemplare e attualissima vicenda raccontata in Notizie dal mondo (se si volesse approfondire, cliccare qui, pur sapendo che solo un folle vorrebbe approfondire sul western). Siccome non decido io, penso che potrebbe anche essere un Oscar interscambiabile, per Erik Messerschmidt (Mank) o per la sua versione invecchiata, Sean Bobbit (Judas and the Black Messiah): guardare sotto per credere. Ma alla fine potrebbe spuntarla l’outsider Joshua James Richards, che a parte qualche corto, ha quasi sempre e solo lavorato (bene) con Chloé Zhao. Se dovesse vincere, sarà per l’intensità con cui restituisce la vacuità spaziale che alimenta il cinema della Zhao e per la capacità di riempire la tradizionale immensità americana di sfumature cromatiche particolarmente espressive.

Erik Messerschmidt, a sinistra, e Sean Bobbitt, a destra. O era Erik Messerschmidt a destra e Sean Bobbitt a sinistra?

Miglior documentario. Collective, indagine profonda e sofferta sullo scandalo della sanità romena a seguito di un grave incidente in un locale per concerti. Lo do praticamente per certo, senz’altro da aggiungere.

Miglior film straniero. Al contrario dello scorso anno, quando c’era Parasite, nessuno dei film in lizza supera di gran lunga gli altri. La curiosità è che Collective concorre anche in questa categoria ed è sicuramente il film migliore, pur non essendo un film di fiction. O meglio, pur non essendolo come definizione, perché poi, nel corso della narrazione, è come se lo diventasse: un documentario che sembra narrare i fatti con un incedere da thriller, come se fosse Il caso Spotlight o Tutti gli uomini del presidente.

E soprattutto: ce la farà Laura Pausini con la sua canzone Io sì, tratta dal film di Edoardo Ponti La vita davanti a sé, a bissare il successo dei Golden Globes?

Ma ‘sti gran cazzi….

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema pur essendo cosciente dell'inutilità.