Piccola guida ai film maledetti ovvero La grande trollata

[Post molto lungo, vi avviso: regolatevi, se non avete tempo, fate quello che dovete fare e magari tornateci quando avrete cinque minuti in più]

Qualcuno tra voi all’indomani della premiazione dei David di Donatello mi ha chiesto perché non scrivessi un post di commento alla premiazione.

Un attimo di incertezza.

Cos’è un David di Donatello?

Quella manifestazione con cui il cinema italiano premia se stesso fingendo di realizzare grandissimi prodotti, frutti maturi di una grande industria che in realtà non c’è? Quella in cui interviente l’unico personaggio dotato di credibilità a livello nazionale, ossia il Presidente della Repubblica, per celebrare il cinema nostrano come specchio della nostra civiltà? (e quindi non c’è da stare allegri). E cosa avrei potuto scrivere come commento? Confermare che Le otto montagne ha vinto il premio come miglior film pur essendo un lavoro che abbozza ma non osa davvero mai? In un cinema che annaspa e boccheggia, chi avrebbe dovuto davvero insidiarlo? Il western generazionale all’amatriciana di Brado oppure quell’enorme straziante stronzata (pardon pour l’allittération) del Colibrì?* Forse Nostalgia di Martone, ma così non è stato. Eppure una cosa positiva il David ce l’ha, ma ce l’ha cercando tra i premi per il miglior regista esordiente e più che quest’anno mi riferisco al premio dello scorso anno a Laura Samani per Piccolo corpo, sorprendente viaggio allegorico di una giovane madre all’interno della terra friulana, a difesa della propria identità femminile e del corpicino della sua creatura, nata morta, e per questo condannata al nulla del limbo dalla tradizione cattolica. Se lo avete perso o snobbato, recuperatelo, è su Sky e se una speranza l’ha data a me che speranze sul cinema italiano non ne ho mai, può darla anche a voi che siete ceratamente meno carogne di me.

* Non appena ho espresso questo pacato giudizio sul Colibrì, mi hanno proposto di far parte della giuria di un festival. Presidente della giuria? Francesca Archibugi. Ahahahahahahahahahahahahahahah! Scherzo Francesca, si fa per ridere, eh!

Quindi niente. Non c’era molto da dire. Preferisco parlare d’altro. E visto che è da un po’ che non aggiorno ed è da molto di più, quasi due anni, che voglio parlarvi di un mio pallino, finalmente lo faccio. Nella vita di uno che l’ha trascorsa quasi tutta a guardare film (e a vedere partite, ma a voi di questo frega poco), c’è un momento nel quale sono solo due le cose che danno davvero soddisfazione: vedere un film che sia indiscutibilmente un capolavoro (molto raro) oppure vederne uno talmente invisibile, così leggendario da non essere mai stato visto da nessuno. O da pochissimissimi. Che ne so, per esempio, London after midnight di Tod Browning, pellicola del 1927 con Lon Chaney nei doppi panni di un ispettore di Scotland Yard e di un vampiro, andata distrutta durante un incendio degli archivi della Metro-Goldwyn-Mayer nel 1965 e ritenuta da alcuni storici uno dei muti più di culto tra quelli impossibili da vedere (mentre altri osservano che il suo fascino risieda unicamente nella sua invisibilità, perché il prodotto era piuttosto ordinario ― se qualcuno si accontentasse di vedere il risultato più vicino, questa è la ricostruzione realizzata nel 2002 dal restauratore Rick Schmidlin per la Turner Classic Movies utilizzando foto di scena e pubblicitarie e seguendo la traccia della sceneggiatura).

Lon Chaney in London After Midnight

Capito che tipo di film? Rarissimi, invisibili, meglio ancora da non vedere. Maledetti. Per sé e per gli altri. Come Opera mortem, realizzato pare nel 1973 da un pittore inglese completamente folle chiamato David Fleas, pellicola di nemmeno un’ora, visionaria e sconnessa, con un montaggio totalmente impressionistico basato sulla conueta iconografia del demonio e finalizzato a raccontare l’istinto di morte di una ragazza suicida, intrecciato all’isteria di un serial killer necrofilo. Se solo se ne capisse la logica, non mancherebbe quasi niente. Talmente impressionante che alla sua prima, all’Odeon di Nottingham, nel ’73, alcune persone morirono. Anche se non se ne conosce il perché. Non male, eh? Il film è reperibile in DVD perché acquistato nel 2015 da un collezionista italiano direttamente dalle mani del figlio dello squinternato pittore, desideroso di disfarsene insieme a tutta la sua aurea di sfiga. Si trova, guarda caso, in sole 666 copie su e-bay al prezzo assolutamente concorrenziale di 2999 euro. Sarò tirchio o un cagone, ma io fossi in voi eviterei di comprarlo.

Un possibile affare che non dissolve completamente il sulfureo odore di supercazzola che lo pervade. A quanto pare stesso potere nefasto del più celebre e stupefacente La fin absolue du monde, film di produzione canadese del 1970 che si suppone perduto, terzo e ultimo lungometraggio del regista Hans Backovic, forse serbo, di sicuro di origine balcanica. Secondo le fonti, principalmente quelle del critico Ken Meyers, probabilmente il più attendibile nella ricostruzione del contenuto, «non è un film, somiglia più a una pallottola sparata direttamente nella scatola cranica di tutti gli spettatori» e racconta con tratti di un sadismo difficilmente sostenibile di un gruppo di spietati criminali protagonisti del rapimento di un angelo, a cui strappano le ali con l’intenzione di dissanguarlo. Il film, come si dice di Opera mortem, fu proiettato un’unica volta al Festival del Cinema Fantastico a Sitges, in Catalogna, per poi essere ritirato dopo la reazione isterica delle persone in sala, trasformatesi improvvisamente in belve assetate di sangue, pronte ad aggredire selvaggiamente i propri vicini di seggiolino. Dopo quella proiezione, tra l’altro neanche terminata, il film scomparve nel nulla senza lasciare traccia. Conosco gente che darebbe l’intestino per poterlo vedere.

Un fotogramma con angelo di La fin absolue du monde

Film maledetti, appunto, testimonianze forse insignificanti che vivificano su una mitologia alimentata da voci che si rincorrono, e a volte gareggiano a chi la spara più grossa. Però un senso di inquietudine serpeggia sempre. Com’è che diceva Peppino de Filippo? Non è vero ma ci credo. Cosa costa? Anche perché le combinazioni sono affascinanti. Prendete un cortometraggio come Un día en Lisboa, girato dal misconosciuto regista spagnolo Alfonso Nieva nel 1964. È un breve documentario che mostra una giovane coppia in viaggio tra Lisbona e l’Estoril, un filmetto davvero insipido, prodotto e subito smarrito negli archivi della Filmoteca Española di Madrid. Se non fosse che la donna della coppia è una giovanissima Soledad Miranda, attrice horror-erotica spagnola diventata di culto per aver interpretato Vampyros Lesbos di Jesús Franco e morta prematuramente in un incidente stradale all’età di 27 anni nel 1970. Ah, scusate, ho omesso la connessione che rende il tutto interessante. L’affascinante Soldead, così sensuale e così indifesa, morì nello stesso tratto di strada nei pressi dell’Estoril che aveva solcato nel filmetto insipido di cui sopra. Stesso tratto di strada in cui il celebre esoterista Aleister Crowley inscenò il suo finto suicidio. Al volante, in quel giorno d’agosto del ’70, c’era José Manuel Simões, ex pilota di rally e marito di Soledad, lo stesso che era al suo fianco nel breve documentario di sei anni prima, anche se non era ancora suo marito ma solo una semplice comparsa. Coincidenze, precognizione o prolessi del metaverso? Fatto sta che alcuni curiosi si sono messi sulle tracce del documentario smarrito con devozione cultuale e un critico spagnolo, Carlos Aguilar, lo ha ritrovato. In una copia pessima, totalmente in sindrome acetata (quando le pellicole si deteriorano e hanno tutte quel colore tendente al viola), ma presente quanto basta per continuare a corroborare la sua piccola leggenda.

Soledad Miranda in versione vampira

Basta poco per accedere al mito. Come diceva Michele Apicella? «Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?» Ecco, se un film sparisce dalla circolazione, è sufficiente che un tizio sotto qualunque forma ne parli per generarne una precisa mitologia che vive in parallelo alla qualità del film. Per esempio, avete mai sentito parlare di A Florida Enchantment? È un film muto del 1914 diretto da Sidney Drew e prodotto dalla gloriosa Vitagraph. Racconta in poco più di un’ora una sorta di chiasmo ideale, a causa del quale due fidanzati, sul punto di sposarsi, si trasformano vicendevolmente in personaggi del sesso opposto, con tutte le conseguenze che la tradizione della commedia, da quella attica antica, porta inevitabilmente con sé. Come qualcuno di voi, ché siete intelligenti, avrà sicuramente già arguito, si tratta di un film importante perché è una delle prime raffigurazioni dell’omosessualità e del travestitismo su grande schermo. Dev’essere ciò a cui ha pensato anche B. Rosenberger Rosenberg, critico americano un po’ nevrotico, calvo e con una grande barba (non vi preoccupate, non ne sto parlando male, sono proprio le sue caratteristiche oggettive: lo dice anche lui di sé), il quale non appena ha avuto l’occasione di guardare l’unica copia esistente, ha telefonato a un suo amico editore per proporgli un libro, annusandone le potenzialità del riflesso sulla società contemporanea. Il problema è che, grazie ai suoi buoni uffici, è riuscito a farsi affidare la copia, l’unica copia esistente, per poterla analizzare con calma; si è fermato in un autogrill per bere una bibita e mentre guardava fuori dalla vetrina ha visto nitidamente il furgoncino su cui viaggiava prendere fuoco e sciogliere letteralmente la copia del film. Puf! Florida Enchantment adieu. Ascensione direttamente al mito.

La fidanzata di A Florida Enchantment scopre di soffrire di saturazione pilifera

Ci sono poi pellicole che godono di un’esistenza assolutamente paradossale. Sono diventate oggetto di culto senza che siano mai davvero esistite. Prendete La morte di Marat, film sulla rivoluzione francese, realizzato dal carneade Adolphe Sarre, di cui qualcuno ha detto che in realtà si sarebbe trattato di Abel Gance sotto mentite spoglie. La morte di Marat è un film mai realizzato, recensito come provocazione alla metà degli anni Novanta, un implicito atto d’accusa di un critico di Los Angeles ai tronfi colleghi, i quali parlando dei film mettono al centro sé stessi e una verbalità totalmente vuota, saccente e talmente indifferente rispetto al lavoro che stanno trattando da poter parlare di qualunque cosa, anche di un prodotto che non esiste. In pratica avrebbe voluto essere l’atto di morte della critica, in realtà si è trasformato nella sua esaltazione. Ben prima dell’avvento dei social, infatti, la recensione passa di bocca in bocca e a Los Angeles, la terra dove si fabbricano i sogni, La morte di Marat diventa il film di cui tutti discutono, anche se nessuno lo ha visto. Tuttavia, con uno switch del tutto surreale ― e vi scongiuro di credermi ― lo stesso autore dell’articolo, tal S. E., completamente sconcertato da un timore paralizzante, si ritrova invitato a una proiezione ufficiale in cui viene presentata la versione restaurata dello stesso film che si è inventato. Scherzo che gli si ritorce contro, nemesi, materializzazione irrazionale dei sogni, atto situazionista o enorme presa per il culo?

La morte di Marat

La ricerca cinefila eccessiva è sempre figlia dell’ossessione. Nel 1969, uno studente di architettura di 24 anni chiamato Ike Jerome, detto “Vikar”, arriva a Hollywood con il culto di Un posto al sole, non la soap napoletana, ma il film di George Stevens con Elizabeth Taylor e Montgomery Clift, quello con la frase d’amore più bella di tutti i tempi, pur nella sua totale irrazionalità («Ti amo. Ti ho amato dal primo momento in cui ti ho vista. Forse, ti ho amata ancora prima di conoscerti»). Vikar, in breve, si convince che il cinema è retto da un principio supremo che regola la realizzazione di ogni film fin dalle origini e che quindi all’interno di ciascuna pellicola della storia del cinema ci sia nascosto un fotogramma, uno solo, estraneo al resto, come se un altro film, sotteso, stesse cercando di emergere forzatamente. Un fotogramma da ricercare e ritagliare dal contesto, il cui montaggio con gli altri fotogrammi trovati negli altri film darebbe un’opera segreta e trasversale; un lunghissimo, inesauribile, flusso governato da un’unica istanza narrante iperuranica. Un po’ come ha fatto Damien Chazelle nella suggestiva sequenza di Babylon, quando il personaggio di Manny vede in sala un flusso infinito fatto di tutte le immagini della storia, da quelle già realizzate a quelle ancora da concepire, dai Lumière ad Avatar. Immagino abbiate presente, se avete visto il film. Un delirio, indubbiamente. Soprattutto nelle dichiarazioni di Vikar, convinto che ogni volta che la sostanza dei film fosse entrata nei sogni si sarebbe tramutata in istinto di morte. Inevitabilmente, una fine già scritta, che colpì il povero Vikar all’interno della suite 928 dell’Hotel Roosevelt, sdraiato su un divano, quando passò direttamente dal sonno alla morte forse sognando il suo film fatto di tutti i film. Ironia della sorte: trent’anni prima, senza che lui lo sapesse, in quella stessa suite ci aveva vissuto Montgomery Clift.

Manny Torres in Babylon come il povero Vikar Jerome di oltre cinquant’anni prima

Così come i film, ci sono anche i personaggi dalla statura sfuggente e misterica, al punto tale che diventa comprensibilmente consequenziale chiedersi se siano davvero mai esistiti.

Prendete Hector Mann, per esempio. Uno della grande gènia dei Mann comparso ben prima che comparissero gli altri quattro. Era un comico del muto, diventato celeberrimo nel corso di un anno, il 1928; un anno particolare, però, perché mentre la sua comicità attecchiva sul pubblico, il cinema si stava trasformando in sonoro. Era noto per i suoi baffi, un «legame con il suo io interiore, una metonimia delle pulsioni», disse di lui lo studioso David Zimmer, l’unico che si sia degnato di dedicargli una monografia. I baffi erano il particolare su cui ruotava tutta la sua comicità, l’autentico punto di attrazione per gli spettatori. Hector era un personaggio misterioso: del suo passato non si sapeva nulla di concreto e forse anche troppo rispetto a quanto si dovesse sapere. Pare che il suo vero nome fosse Chaim Mandelbaum. Nelle interviste ai tabloid dell’epoca diceva tutto e il contrario di tutto, a seconda dei momenti e degli umori. Ma se lo poteva permettere, perché nel corso di quell’anno la gente lo adorava. Non era Chaplin, non era Keaton, né Harry Langdon o Harold Lloyd, ma aveva la sua fetta consistente di pubblico. Solo che all’apice del successo, prima ancora che il sonoro ne decretasse la fine come molti dei protagonisti di quel particolare momento di traumatico passaggio, Hector Mann sparisce nel nulla. Per tutti è morto, anche se il corpo non si trova. Svanito. E così anche la sua relativa fama: chi lo ricorda ancora, infatti? Fu lo stesso Zimmer che lo scovò, sessant’anni dopo. Anzi, fu la moglie di Mann, Frieda, a contattare Zimmer nei giorni precedenti la morte di Hector e a rendergli il giusto merito per tanta gratuita attenzione, permettendogli di scoprire cos’era successo, anche se Zimmer non potè divulgarlo, perché non aveva nessuna prova di quanto gli fu rivelato. E anche quello che sto per dirvi è ovviamente da prendere con la dovuta cautela. Mann era sparito nel nulla a causa di un oscuro incidente: aveva messo incinta una giornalista che lo aveva intervistato e questa, reclamandolo come suo, si era beccata un colpo di pistola nell’occhio dalla fidanzata di Mann. Il quale aveva occultato il cadavere ed era scomparso, attanagliato dal senso di colpa. Dopo aver girovagato per una decina d’anni, aver fatto esibizioni porno e aver addirittura lavorato per la famiglia della donna uccisa, fino quasi a far innamorare di sé la sorella minore, si era ritirato in un ranch con la moglie con cui si era accasato, Frieda, appunto, e un paio di domestici messicani. Pare avesse cambiato il nome in Hector Spelling, ma non è sicuro. Qui aveva continuato a realizzare film. Personali, senza regole, originali, anarchici, quasi di avanguardia. Film che il pubblico non avrebbe mai visto perché non uscivano dal ranch e di cui ci sono solo alcune tracce scritte che paiono illusioni: era questa la pena del contrappasso da scontare per la sua colpa. E a quanto si sa, per quel pochissimo che è trapelato, ufficialmente non esistono più, come ufficialmente non esisteva più Hector Mann: tutte le pellicole di Mann furono date alle fiamme il giorno dopo la sua morte, alla fine degli anni Ottanta.

Una performance teatrale olandese ispirata a Hector Mann comico del muto

E infine, come non citare un altro personaggio misteriosissimo, un regista tedesco che alcuni altri registi, tra cui l’Orson Welles in procinto di esordire con Cuore di tenebra, ammisero avesse influenzato la loro stessa visione del cinema, anche se il modo in cui lo fece resta oscuro? Max Castle, Kastell all’anagrafe tedesca: chi era davvero costui? Anche lui scomparso misteriosamente, si dice colpito da un sommergibile tedesco mentre viaggiava su un transatlantico al largo delle coste della Spagna nel 1941, era tendenzialmente un regista di horror, ma questi horror aveva il vizietto di riempirli di immagini subliminali per mezzo del flickering, lo sfarfallio sullo schermo, fastidioso quasi quanto le unghie sulla lavagna di ardesia. Lui la chiamava “frammentazione della luce” e forniva un senso di inquietudine costante che pareva appartenere al genere, ma in realtà andava oltre, perché tentava di impadronirsi della mente dello spettatore, non solo della sua percezione. Perché di fatto era un sadico: un giorno dichiarò che «il pubblico deve patire il male» e pare operasse per farlo. L’industria americana lo scaricò nel 1927, quando realizzò il suo primo film per Hollywood, dopo esservi approdato in fuga dalla Germania: Il martire era lungo 31 bobine, ossia 11 ore. Come dire che Hollywood ha in ogni sua epoca un cagacazzo alla Cimino. Ovviamente la MGM lo ridusse, e pure di tantissimo, di circa sette ore; Castle, che forse non aveva capito i meccanismi dell’industria, minacciò d’intraprendere un’azione legale che non avrebbe mai vinto. Gli Studios gli fecero terrà bruciata intorno. Così, nel corso degli anni Trenta riuscì solo a girare qualche pellicola dal budget ridicolo, tra la serie B e il filmato amatoriale e di lui si persero le tracce ufficiali. Allora lavorò in controtendenza. Il suo scopo era arrivare al nucleo della percezione, andare oltre la superficie della pellicola. Visti con filtri ottici particolari, alcuni suoi film mostravano una seconda serie di immagini leggermente sfocate, tremolanti, presenze spettrali che accrescevano la profondità della ripresa e si muovevano indipendentemente dalle figure a fuoco in primo piano, come se si trattasse di due pellicole sovrapposte proiettate insieme. Se vi capitasse di vedere il comunque difficilmente visibile Dottor Zombie, il film che realizzò nel ’34 con lo pseudonimo di Maurice Roche, date un’occhiata. Vi caghereste addosso. Ancora di più se sapeste che Max Castle, in realtà, come riuscì a scoprire e poi rivelare un accademico americano che si mise alacremente sulle sue tracce, Jonathan Gates, faceva parte di una setta di fanatici discendente dai catari e per questo lavorava in segreto mentre ambiva a far scoppiare un’apocalisse entro il 2014, utilizzando come arma il terrorismo biologico. Non era morto, anche lui si era solo nascosto. Per rompere i coglioni all’intera umanità, evidentemente.

Sembra un mare di minchiate, vero? Eppure, è tutto vero. A suo modo. Se vi fidate, ve lo garantisco.

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema pur essendo cosciente dell'inutilità.

4 Risposte a “Piccola guida ai film maledetti ovvero La grande trollata”

  1. “Cos’è un David di Donatello?
    Quella manifestazione con cui il cinema italiano premia se stesso fingendo di realizzare grandissimi prodotti, frutti maturi di una grande industria che in realtà non c’è? Quella in cui interviente l’unico personaggio dotato di credibilità a livello nazionale, ossia il Presidente della Repubblica, per celebrare il cinema nostrano come specchio della nostra civiltà?”

    Bom, a me basta questa descrizione. Per oggi ho avuto la mia dose di godimento, mi sembra scorretto prendermene altre, quindi il resto dell’articolo lo leggo più tardi.

    a.

  2. E che, non lo so? Appena ho letto “maledetti” mi si sono strofinato le mani come una mosca (cronenberghiana). Ma oggi è l’ultimo weekend per prepararmi al corso che sai, e devo finire di selezionare sequenze e inventarmi balle convincenti. Alla fine è tutto cinema… 😉
    Grazie in anticipo!

  3. Porca p***a, che storie…
    Mi è sembrato di stare ad ascoltare, seduto su una poltrona, a delle storie del terrore in cui sai che del verò c’è di sicuro…
    Articolo da salvare.

    Thanks!

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