Specula speculum

Dopo averli recensiti tutti, a eccezione di Un colpo da dilettanti, e facendo sempre lo stesso film, sono convinto che le parole per Wes Anderson sono ormai del tutto inutili. Lo posso dire con certezza. Fosse solo per il fatto che il suo cinema si è da tempo trasformato in un meme: vorrai mica commentare un meme? Sul web abbondano da più di una decina di anni mashups che isolano un aspetto della sua messa in scena, anche se è quasi totalmente una messa in quadro, e lo replicano tante volte, assecondato dal ritmo di una musica complice e incalzante; su Instagram ci sono intere gallerie di foto realizzate con appositi filtri che vedono il mondo, qualunque mondo, dalle spiagge della Costa azzurra agli slum di San Paolo del Brasile, con lo sguardo simmetrico, inerte e pastellato di Wes Anderson, come se li avesse fotografati lui stesso.

Uno sguardo che dematerializza l’umano e lo rende geometrico. Una cartesianizzazione dello spazio e dei corpi (questa devo averla già scritta da qualche parte, ma tanto ho già scritto tutto da qualche parte, per questo di Asteroid City, che sarà possibile vedere in anteprima martedì 18 luglio, non ne voglio parlare e infatti fra quattro/cinque righe mi taccio). Un girotondo che lo spettatore compie stando comodamente immobile, mentre intorno a lui l’universo narrativo si muove guardandolo fisso in faccia e scrutandone le reazioni, se solo ne fosse interessato. Perché si tratta di una scatola chiusa in se stessa che non si apre, né si è mai aperta all’esterno. Un mondo che si nutre esclusivamente di narrazione, delle sue metafore, della stratificazione dei suoi vari livelli, di treni che passano regalando la dignità del racconto (qua e ne Il treno per il Darjeeling), di narratori che trasformano la pagina scritta in un grafico fatto di ortogonalità collegate tra loro con la meccanicità della graphic novel, non con la fluidità del mondo reale.

Dopo aver sempre sondato la congiunzione tra due punti X e Y dati nello spazio scenico, Asteroid City si rispecchia solo ed esclusivamente in se stesso. Coerentemente con il deserto in cui è ambientato e in attesa che una forma di vita aliena, dall’alto, si palesi. Ma anche l’alto, lo spazio cosmico, non fa altro che riflettersi sulla superficie terrestre. Più dei lavori precedenti, Asteroid City è una stanza degli specchi che raddoppia e moltiplica non solo una dichiarata volontà estetica, ma le stesse inquadrature utilizzate per realizzarla. E il modo migliore per capirci è smetterla di parlare inutilmente e farvele vedere. Perché, come si diceva specularmente all’inizio, per Wes Anderson l’immagine riassume in sé tutte le mille parole utilizzate per tentare di spiegarla.

Con un’avvertenza: tra le sequenze di immagini che seguiranno, c’è anche uno dei rarissimi nudi visti nel suo cinema (a memoria, c’è solo quello di Léa Seydoux in French Dispatch). Non è un semplice nudo, è una rivelazione che per litote allude a una congiunzione di corpi e anime altrimenti impossibile per personaggi incastonati e intrappolati ognuno nella propria inquadratura. Sia essa filmica o inserita in rigide linee di forza scenografiche che replicano, rispecchiandole, i singoli quadri di un film.

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema pur essendo cosciente dell'inutilità.