Un confine verde nel cuore dell’Europa nera: Green Border

Ci sono dei film, non tanti a dire la verità, che ti connettono con il mondo. E so bene che scrivendo queste poche righe mi sto connettendo a mia volta con una serie di persone già connesse. Perché chi non è connesso questi film non li vede e non frequenta questo blog, perché, oltretutto, se non fosse di tendenze politiche in-un-certo-senso-orientate, questo stesso blog l’avrebbe già espulso per idiosincrasia diretta e scarsa affinità. Con grande soddisfazione, tra l’altro, poiché qua si fa di tutto per tenere lontano chi la pensa diversamente. In pratica, me la suono e me la canto da solo, tanto per rimanere in tema con l’argomento canoro dell’ultima settimana (di cui ho trovato carine alcune prese di posizione, subito stigmatizzate dalla solita RAI).

Ci sono dei film, dicevamo, che connettono con il mondo. Pochi. Nell’ultimo anno ne posso citare altri due, oltre a quello di cui sto cercando di parlarvi, e sono Io capitano e Animali selvatici di Cristian Mungiu. Gli altri si limitano spesso ad aprire una finestra che fornisce un orizzonte circoscritto. Ci raccontano storie, spesso bellissime, ma si tratta solo di cinema. Ci fanno sorridere, magari patire, nei casi migliori sognare, ma non ci segnano. Non ci dicono di fare attenzione perché il mondo a poche centinaia di chilometri da noi è effettivamente così e leggerlo sul giornale, ascoltarlo anestetizzati in televisione, non è la stessa cosa che sospendere l’incredulità per un paio d’ore e immergervisi completamente.

E siccome molti di voi, a parole e a sentimenti – magari, nei casi più impegnati, anche con qualche donazione – sono sensibili, diventa assolutamente necessario (che termine pessimo “necessario”) guardare Green Border di Agnieszka Holland, che è un film importante ed è anche il film che dalla Holland non ti saresti mai (più) aspettato, visti i risultati dell’ultimo quarto di secolo.

Green Border è il film che ti immerge in un inferno a cielo aperto. O forse sarebbe meglio dire in un limbo infernale, tracciato lungo il confine tra Bielorussia e Polonia, in cui l’al di qua e l’al di là si equivalgono, perché all’interno del primo si subiscono estorsioni e sadiche violenze da parte delle guardie di frontiera, mentre oltre il secondo, pur illudendosi di accedere all’ambita Europa, grazie soprattutto alla cinica politica di agevolazione dell’immigrazione clandestina da parte di Lukašenko, si è respinti e ributtati nell’inferno da cui si cerca di sfuggire. Green Border è una testimonianza frammentata in un caleidoscopio prospettico che riguarda ogni ordine, grado e coscienza. Una famiglia di siriani in fuga dalla guerra (il film è ambientato nel 2021), una guardia di frontiera polacca, un gruppo di attivisti in aiuto dei profughi e una psicologa (Maja Ostaszewska) che prende tragica coscienza di ciò che sta accadendo a pochi metri dalla sua abitazione dopo aver tentato di aiutare alcuni membri della famiglia siriana. Gli attori in scena ci sono tutti. Tranne che gli alfieri dell'”aiutiamoli a casa loro”.

Dopo una breve introduzione a colori su quella foresta al confine teatro degli eventi, il film vira decisamente verso un bianco e nero opprimente, grazie alla fotografia densa di Tomasz Naumiuk le cui zone scure si mangiano progressivamente tutte le speranze di un chiaro che è sempre livido, mai luminoso, immagine perfetta di un’atmosfera depressa e priva di sbocchi. La macchina da presa è in costante movimento, spesso in tumulto: non ci si può immergere in un’emergenza umanitaria con un campo e controcampo o con un’inquadratura fissa che non intenda sporcarsi le mani. Sarebbe un’assunzione di finta responabilità, non partecipazione emotiva, scambio passionale, urgenza politica pronta a farsi permuta comunicativa.

E non si fanno sconti, anche quando la situazione indurrebbe a illudersi. Pensate alla rappresentazione della morte. Non nello specifico, perché il film magari non lo avete ancora visto (ma fatelo, mettetelo al primo posto della lista: tra tutte le cazzate che si potrebbero vedere, questa ha un senso). Intendo in valore assoluto: se in una situazione simile Garrone in Io capitano opta per l’iperbole poetica condita con il chiaro riferimento pittorico estetizzante (e la mia non è una critica, solo una constatazione: la scena funziona ed è iconica, perché Garrone decide di fare del cinema), la Holland (sì, ho messo l’articolo, non rompete i coglioni, è abitudine: invece di questo post stavo per scriverne un altro per voi che mettete gli asterischi e le schwa come se fosse una sciarada e sono ancora carico), la Holland, quindi, mostra invece la stessa impersonale fatalità della vita al cospetto dell’inutilità dello sforzo umano. Ed è frustrante, oltre che talmente drammatico da lasciare a bocca aperta.

Io capitano (a sinistra) e La passeggiata di Marc Chagall (a destra)

E non è che la Holland non faccia cinema. Lo fa, è evidente dalla costruzione delle inquadrature e dalla loro coreografia interna, oltre che da omaggi estemporanei ma lampanti, come l’inquadratura che vi ho inserito qua sotto, strappata di netto dall’Infanzia di Ivan di Tarkovskij. Ma le immagini, per quanto proposte in bianco e nero, sono letteralmentte fagocitate dalla verosimiglianza patemica di una realtà che, se non in quegli stessi termini, si è verificata e continua a verificarsi con caratteristiche del tutto simili. Immagini che hanno carne e sangue, vesciche e piaghe, fetore e sudore marcescente che pare trasudare dallo schermo per investire la coscienza di chi sa ma non abbastanza, perché tanto chi non sa non è interessato a sapere.

A cavallo di un fossato: L’infanzia di Ivan (a sinistra) e Green Border (a destra)

Per di più, Green Border non ha il sapore pastoso, in qualche modo confortante dell’exemplum, ma si avvolge su se stesso in una ciclicità spuria e beffarda che sfocia alla fine di febbraio del 2022, quando l’emergenza umanitaria, pur nell’identità funzionale del gruppo familiare in fuga, cambia la nazionalità e la disponibilità dei governi sotto il tetto dell’Europa. Quella stessa comunità europea più volte evocata dai personaggi nel corso del film, ma sempre lontana, quando non addirittura assente, se non per vuoti simboli e riferimenti che certo non hanno nessuna possibilità di fornire conforto, né tantomeno soluzioni possibili.

L’unica speranza è dettata dalla singola apertura individuale, dalla fenditura che squarcia il muro invalicabile di cinico razzismo e permette ciò che le istituzioni non consentono. Un’umanità che mette alla prova se stessa e accenna anche alla crisi personale, ma è l’unico slancio di ottimismo che Green Border suggerisce. Senza speranze politiche comunitarie per il futuro, solo affidandosi a un generico umanitarismo del singolo.

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema pur essendo cosciente dell'inutilità.

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