Come evitare di perdersi un grande film: American Fiction

Si tratta di un delitto in piena regola. È un film candidato a 5 Oscar (sì, non contano più un cazzo, ve lo ripeto da sempre, ma questo è vero soprattutto quando l’Oscar non te lo danno), era in quasi tutte le film list del 2023 delle più prestigiose riviste americane (negli Usa è uscito alla fine dell’anno) ma in Italia è distribuito da Prime Video dal 27 febbraio, senza essere passato prima dalle sale.

E che cosa vuoi dire? Fai lo schizzinoso?

Voglio dire che. Se da un lato è un bene che sia subito disponibile per tutti (quelli abbonati a Prime) e non solo per chi ha ancora la costanza di andare al cinema, dall’altro è altrettanto vero che se tu il film non lo stai attendendo (immagino abbiate una vita più strutturata della mia, che è molto semplice), Prime Video non fa niente per evidenziarlo nella sua home page. Anzi, non è neanche nelle 14 finestre che si alternano a siparietto, pallino dopo pallino, soppiantato da cose inutili e talvolta dannose come Regina Rossa, Pensati Sexy. E quindi, il grande rischio è che venga colpevolemente ignorato da moltissimi.

Molto male. Perché American Fiction, è di questo che stiamo parlando, è uno dei tre film più intelligenti della scorsa stagione e sicuramente un titolo che comparirà nella mia lista del 2024, quando sarà, ve lo dico già adesso.

American Fiction è tratto dal romanzo Erasure dello scrittore Percival Everett, abbastanza misconocosiuto qui da noi (che peccato, perché è uno scrittore davvero interessante), vicenda originata a sua volta da una sua vicissitudine personale. Questa: alla fine del secolo scorso, Everett scopre sugli scaffali di un grande bookstore che il suo volume, Frenzy, con protagonista un assistente del dio Dioniso, pur essendo un volume di letteratura tout-court o al massimo di mitologia, è stato collocato nel ripiano degli studi afroamericani. In mezzo ad autori come Ta-Nehisi Coates, Toni Morrison e Teju Cole, anche se il primo e il terzo all’epoca non avevano pubblicato ancora niente. Non che faccia schifo, eh!, ma il discorso è diverso. Perché Everett è sì afroamericano, ma è prima di tutto uno scrittore e la scrittura non ha colore, se non segue deliberatamente dinamiche identitarie etniche. Oltretutto Everett è celebre negli Stati Uniti per una serie di appassionanti romanzi western. Spiazzante, come il tassista nero amante del country nel Grande Lebowski.

Dopo aver riflettuto a lungo sullo stereotipo in cui sono intrappolati gli scrittori neri, praticamente obbligati a scrivere di ghettizzazione e rivendicazioni razziali se vogliono accedere all’industria culturale, Everett scrive Erasure, che negli Stati Uniti è uscito nel 2001 e in Italia è comparso nel 2007 in Italia con il titolo Cancellazione per Instar, anche se ora è praticamente introvabile (provateci, anche di seconda mano: non ci riuscirete). L’intenzione era quella di stigmatizzare il mercato editoriale americano, interessato solo a valorizzare i prodotti che rinvigoriscono lo stereotipo, ma anche la cattiva coscienza bianca, che sentenzia costantemente pensando di lavare il peccato originale del sempre presente razzismo, anche quando si presenta sotto forma di benigno paternalismo.

Da questa necessaria premessa nasce American Fiction, che Cord Jefferson, giornalista, autore televisivo ed ex direttore di «Gawker», noto sito di gossip Manhattan based, ha adattato per il suo esordio alla regia.

Jefferson aggiunge alla critica di Everett sui luoghi comuni e sulle gabbie socioculturali una bella sferzata su quella cancel culture che ci ha ormai annoiato a morte (scusate, mi trattengo, avrei voluto dire di peggio, ma neanche più la cancel culture merita il florilegio del mio ampio vocabolario da strada), condito da pennellate di ipocrita cultura Woke. Guardate la prima scena del film e confrontatela con una scena simile, altrettanto fastidiosa ma stilisticamente pregevole, quella in cui Cate Blanchett in Tár mortifica il suo studente della Juilliard che si rifiuta di ascoltare Bach perché esponente di una dichiarata cultura patriarcale (come se io dovessi buttare i dischi di Charlie Mingus perché era un pappone). Guardatela, questa prima scena, anche se è realizzata con toni ironici, come ironico è tutto il film, e ditemi in tutta sincerità se non vi girano i coglioni a sentire una studentessa ignorantella (bianca) scandalizzarsi perché il titolo della novella proposta (di Flannery O’Connor) nel corso di scrittura creativa (di un insegnante nero) ha nel titolo quella parola impronunciabile con una N (o con due G, se lo vedrete nella versione originale ― consigliata, altrimenti non vi gustereste il cambio di toni e slang). Scena iniziale tra l’altro propedeutica per istruire sul clima nel quale il protagonista si muove per affermare se stesso come scrittore privo di una connotazione avvilente.

Il protagonista è l’insegnante di cui sopra. Insegnante e scrittore, appunto. Uno che, a proposito di pregiudizio, possiede un nome che più black non si può: Thelonious Ellison. Ellison come Ralph Waldo Ellison, l’autore del manifesto antirazzista L’uomo invisibile, che pur essendo il suo unico romanzo gli fruttò nel 1953 il Premio Pulitzer e il National Book Award. Mica male, eh? Se uno poi si chiama Thelonious, è consequenziale, per chi non ascolti solo il prode Geolier, assegnargli il nomignolo Monk, come il leggendario e svampito pianista. Ma Monk ha un grosso problema, come notava anche Mortimer Duke in Una poltrona per due: è un afroamericano appartenente alla upper middle class di buona famiglia e le storie del ghetto, di crack, rapper, spacciatori e polizia violenta le ha lette soltanto sui giornali, almeno quanto i bianchi ultraliberal che si sforzano di perorare una causa che sicuramente sentono più loro.

Quella di Monk è una lotta di redenzione per l’oggetto della sua scrittura. Ma nel film il suo percorso si incastra con una vicenda personale e familiare che sfiora sempre l’eventualità di diventare tragica, se non fosse per il felice tocco di Jefferson, capace di mediare le istanze drammatiche con pennellate di confortante umorismo, e per l’interpretazione di Jeffrey Wright, attore sempre troppo sottovalutato, capace qui di caratterizzare un personaggio spigoloso con tocchi di instabile umanità e di rafforzare la sua crescente indignazione con scarni ma fin troppo espressivi accenni del volto.

Il paradosso è che Monk è comunque un emarginato, anche se non nell’accezione che farebbe di lui, secondo la potenza ineluttabile dei luoghi comuni, un perfetto esemplare della sua etnia.

È un emarginato a dispetto della sua origine e della sua appartenenza. Non certo per disagio sociale, quanto professionale, perché rinchiuso dentro le sue convinzioni intellettuali che gli fanno disprezzare il compromesso letterario, la scorciatoia commerciale, lo stereotipo come grimaldello per il successo. Monk è avulso da tutto ciò che lo circonda, dal contesto culturale, perché non produce, a quello accademico, che glielo rinfaccia e che lo accusa di insensibilità rispetto ai temi etici e razziali. E non solo, perché il suo disagio è soprattutto emotivo, visti i difficili rapporti in ambito familiare e sentimentale, dovuti alla sua incapacità di donarsi agli altri rivelando completamente la sua vera personalità.

Nonostante l’inesperienza di Jefferson come regista, il merito del film è di evitare di raccontare un prevedibile percorso di progressiva consapevolezza da parte del protagonista; piuttosto narra la problematica esperienza di un travestimento, diventando così una lucida satira in cui l’individuo è costretto dagli eventi a compiere tutta una serie di atti contrari alla sua volontà per allinearsi a una società ai cui valori non riesce ad adeguarsi.

E così Monk, ma il discorso potrebbe essere valido per chiunque, diventa parte di un meccanismo inglobante e annichilente dal quale è praticamente impossibile liberarsi e che forse conviene assecondare. D’altronde, è una finzione (non solo) americana, e quindi, idealmente, a vario titolo fingiamo sempre un po’ tutti. È il caso di arrendersi e ammetterlo.

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema pur essendo cosciente dell'inutilità.

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