La tonnara delle coscienze

[Disclaimer: se lo state ancora guardando o se avete intenzione di farlo, NON leggete ciò che segue]

Mi ero perso l’uscita, di Squid Game, la serie coreana in nove episodi trasmessa da Netflix dal 17 settembre e firmata da Dong-hyuk Hwang, se solo i nomi coreani avessero davvero un senso per noi occidentali di media ignoranza non appena si vada oltre i Bong Joon-ho (per coloro che si vantano in compagnia di essere cinefili), il pingue Kim Jong-un (per tutti quelli che leggono i giornali o che siano intimi dell’ex senatore Antonio Razzi) o Son Heung-min (per chi segue la Premier League, perché lì sì che si gioca davvero a calcio, mica in Italia ecc. ecc.).

Me l’ero persa ma poi, subito dopo, non è stato possibile sfuggire agli articoli che ne parlavano un po’ dovunque, su quotidiani e riviste fighette, ma soprattutto non sono scampato all’ondata che mi ha sommerso in classe, poiché i miei allievi di terza l’avevano vista TUTTI. E quando dico tutti intendo davvero tutti. E chi non l’aveva ancora vista era perché gli mancavano solo tre episodi. Una mia allieva, in un impeto di “vediamo chi la spara più grossa”, dal fondo dell’aula mi ha anche detto come sarebbe finita, cosa che, dopo quei quattro lunghi secondi di incredulità, mi ha provocato degli istinti perfidamente omicidi. (Al di là dell’ovvie considerazioni che potrebbe fare chiunque, ci sarebbe da riflettere sul come erodere quella differenza sostanziale che, nel giro di soli due giorni, vede 8 allievi su 10 impreparati per un’interrogazione su Napoleone ma tutti perfettamente in tiro per raccontarmi con dovizia di particolari sanguinolenti una serie televisiva su Netflix. Mi riserverò di lavorarci su, se non ci muoio prima. Magari ne riparleremo. Ma solo se sarà il caso).

Colori zuccherosi per fotterti meglio, figlia mia

Dunque, cos’è Squid Game? Tendenzialmente un gioco al massacro condotto con sadismo a tratti esasperante (tanto per rimanere nel solco degli ultimi due post e pensando sempre al fantastico incipit di Kill Bil sul «Mi trovi sadico?» già citato qualche tempo fa. Un attimo, però: quanto sono incantevoli gli incipit? E non sto parlando necessariamente di cinema. Colpiscono proditoriamente come una lama e intorno ci si costruisce un intero universo fino a un secondo prima inesistente: «Un grido s’avvicina, attraversando il cielo», oppure «Non era più una strada ma un mondo, un tempo e uno spazio di cenere in caduta e semioscurità», oppure ancora il geniale, nella sua semplicità, «Per molto tempo, mi sono coricato presto la sera», a cui la battuta più celebre del Noodles di Leone deve moltissimo. Sono fermamente convinto che si dovrebbe impedire per legge di proseguire nella stesura di un romanzo se l’incipit non dovesse essere folgorante). Ma sto divagando, malattia incurabile di questo blog ormai sempre più alla deriva. Un gioco al massacro, si diceva. 456 disperati, impossibilitati a continuare normalmente le loro vite, alcuni malati terminali, quasi tutti inseguiti dalla polizia e dai creditori, pronti a tutto per dare una svolta decisiva alla loro esistenza, accettano di sottoporsi a una competizione, non so se vi ricordate Giochi senza frontiere, «Attention! Trois, deux, un…fiiiiiiiiiii», come dicevano Gennaro Olivieri e Guido Pancaldi, che per quelli che hanno la mia età era un po’ un surrogato dei Mondiali nei tre anni in cui non c’erano; oppure, per chi è più giovane, pensate allo stesso coglionismo che regolava Mai dire Banzai, ma senza che se ne possa davvero ridere. Anche perché chi perde è ucciso da cecchini vestiti come la marmaglia rapinatrice de La casa di carta, ma con i quattro simboli della Playstation al posto della maschera di Dalì. Chi sopravvive vince un montepremi ricchissimo di 45,6 miliardi di won (se al cambio attuale un euro è 1385 won, allora sono circa 33 milioni di euro), reso fruttuoso dalla morte di tutti gli altri 455 concorrenti. Il problema è che chi ha accettato di partecipare al gioco è stato sedato e portato in un’isola lontana in cui è stato allestito tutto lo scenario della competizione (quasi come in DAU), spogliato, privato del cellulare (e chi non è inseguito dai creditori potrebbe tentare il suicidio già solo per questo), rivestito con una tutina che manco negli anni Ottanta in Germania Est ma che potete scommetterci diventerà di tendenza, e ridotto alla fame e imbarbarito per sollecitarne gli istinti più beceri. Questi figli illegittimi di Thomas Hobbes sono costretti a misurarsi in giochi dell’infanzia in cui l’orrore risiede nel loro capovolgimento (defamiliarizzazione dicono quelli più cool), perché se in “Un, due, tre stella”, conosciuto come “L’orologio di Milano fa tic tac” o “Le belle statuine” per chi viveva in una città del nord Italia con una vocazione industriale ormai smarrita, talmente smarrita che nel primo turno delle elezioni amministrative nei quartieri più popolari ormai vincono i post-fascisti (che anche da post sempre grandi facce di merda sono, sia chiaro, sono solo più melliflui e insinuanti); se in questo cazzo di gioco, insomma, ti beccavano mentre ti muovevi ti facevano ritornare al punto di partenza (dio, che divertimento: grasse risate). E invece nell’isola, mentre sei con la tutina di merda addosso, se fai l’errore anche solo di tremare, ti finiscono con una raffica di mitragliatore. Ecco, al netto di particolari traumi infantili personali (chessò, un cane che ti ha morso la caviglia o la vicina che ti ha mostrato il pube villoso che tu hai scambiato per un formicaio), la differenza con l’infanzia di ognuno è tutta qua.

Per chi ha gusti soviet vintage la tutina è in vendita a un modico prezzo

E il metro è questo per almeno la metà della serie. Ti affezioni ai personaggi, come ogni serie fa e se non lo fa vuol dire che non assolve al suo elementare compito, capisci quali siano le motivazioni profonde che li hanno portati a rischiare la vita per coltivare un’esile speranza di riuscita, cominci a distinguere l’uno dall’altro (diciamocelo, ma senza per forza essere tacciati di razzismo, solo un po’ di relativismo: con gli orientali nei primi momenti non è così facile, anche se si finge di conoscerli da una vita) e a quel punto sei agganciato, sei uno dei 456 concorrenti. Magari non il vecchio con il tumore al cervello (il numero 001, che però fa una tenerezza immane. Almeno fino al sesto episodio), magari non la teppaglia di merda che fa di tutto per farsi odiare, non la bruttarella dai modi mignotteschi che usa corpo e mossette per trarne vantaggio, ma tutti gli altri su cui il racconto si focalizza certamente sì. E cosa ti fa invece alla sesta puntata il buon Dong-hyuk Hwang (il creatore della serie, non il regista premio Oscar, non il dittatore adiposo e non il calciatore)? Ti illude sulla vicendevole solidarietà del gruppo, sull’unione che fa la forza grazie alle esperienze personali di ognuno, sulla correttezza come valore rispetto a tutti gli altri partecipanti che puntano a fottere il prossimo e, a gioco partito, capovolge le premesse, trasformando la collaborazione in sfida e obbligando i suoi personaggi, se vogliono vivere, a prevalere sull’amico che si pensava compagno di squadra o, in un caso, addirittura sulla moglie, compagna inseparabile di una vita. Non più solo sadismo estetico, pronto a mostrare colpi a bruciapelo nelle tempie, sangue zampillante e interventi per espiantare organi come se fosse un programma di Cannavacciuolo, ma un autentico cinismo manipolatorio del meccanismo narrativo che obbliga lo spettatore, comunque sempre, fino a quel momento, rassicurato moralmente, a rivedere tutte le sue convinzioni e l’affetto provato per i protagonisti. Sì, perché questi, a contatto con la possibilità fattiva di essere crivellati di colpi di fronte al profilarsi sempre più probabile di una sconfitta (a biglie: ancora più beffarda) mostrano un lato di cui (ingenuamente) non li si pensava assolutamente capaci, pur giocandosi la vita a “strega chiama colore” (rosso, ovviamente). E questo ribaltamento morale, per cui ci si approfitta delle debolezze e della fiducia di quelli con cui si faceva squadra fino a un secondo prima, manda il criterio di identificazione, essenziale ― ricordiamolo ― per ogni serie televisiva, completamente a puttane.

Mia mamma lo diceva che lo scivolo poteva essere pericoloso

Smarrimento e sconforto. La scelta, però, più che cinica, è raffinata. Tanto sottile quanto universale. Il forte che prevarica il debole, sia questo l’anziano con demenza senile, sia l’immigrato con un debito di riconoscenza che si potrebbe leggere anche attraverso il filtro dell’ipocrisia, perché questo benedetto sesto episodio rivolge (anche) un’accusa diretta all’aiuto verso l’altro condotto per un influsso paternalistico direttamente influenzato dalla cattiva coscienza consumistica. Ma l’accusa sociale si trasforma in purissimo melodramma quando i due personaggi femminili, scaricati dal resto del gruppo perché ritenuti un ostacolo al superamento della prova, danno vita a un confronto particolare, basato sullo scambio e non sulla sfida, nel quale prevalgono il sacrificio e la consapevolezza della colpa, in un susseguirsi serrato, con sguardi interlocutori che si scambiano, domande che si interrompono con un singhiozzo, rivelazioni e lacrime che non si trattengono, non solo sullo schermo. È un fiume che tracima e sommerge tutti i protagonisti, i colpevoli e le vittime, gli immolati e gli umiliati, i salvati e coloro che a quel prezzo non avrebbero voluto esserlo. Non c’è (ancora) nessun compromesso, nessun accenno di riconciliazione. È un tracollo morale e il collasso di qualunque principio di empatia narrativa: anche se i successivi tre episodi aggiusteranno un (bel) po’ il tiro, come finirà è ormai totalmente ininfluente, perché già adesso, al termine del sesto episodio, abbiamo assistito a una strage delle coscienze che renderà il tentativo di riprendersi assolutamente posticcio.

Il numero 067, forse l’unico personaggio che non vi accoltellerebbe mentre dormite

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema pur essendo cosciente dell'inutilità.

2 Risposte a “La tonnara delle coscienze”

  1. ora, fossi su tik tok farei la ola e sarebbe una roba seriale che accade ogni qual volta io leggo un post su questo blog che sarà alla deriva ma approda sempre al dunque. e se ti azzardi a chiuderlo vengo alla tua porta con una tutina fucsia (che è uno dei miei colori preferiti) e ti smitraglio perché che senso ha lasciarti in vita se non scrivi per il piacere di noi lettori? che saremo pochi o tanti non so, ma Manzoni ci ha fatto una fortuna su quel manipolo di fan. per il resto mi auguro che i tuoi allievi si preparino un po’ meglio su Napoleone, che si è permesso di internare per tre anni un mio antenato – un po’ reazionario in verità – in quel di Fenestrelle. e la chiudo qui. che su giochi senza frontiere mi son pure mangiata una madeleine umidiccia di lacrima. elena

    1. No, non lo chiudo, almeno per il momento. il fatto di scrivere “solo quando è il caso” mi dà l’occasione di scrivere davvero quando è il caso (ossia, quando ne ho veramente voglia) e poi non siete neanche così pochi, in verità, ben più dei 25 millantati. per cui vi ringrazio di cuore. alla fine “è il caso” perché so che ci siete, confesso.

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