Un corollario a Babylon quasi altrettanto sperimentale

Allora, esperimento dell’ultimo post valutato positivamente, pare. Perlomeno rispetto a coloro che mi hanno gentilmente fatto avere i loro graditi riscontri. Qualcuno, che scrive dall’estero, ha addirittura azzardato il termine “metareferenziale”, notando come io sia passato dalla scrittura del blog alla parola del video trattando di un film incentrato sul passaggio dal muto al sonoro. Fantastico. Grazie. Ma non era voluto. Anche perché metà delle scelte operate dal blog sono casuali. Ringrazio ugualmente per un’ipotesi che mi sovrastima, ancorché in modo gratuito. Giusto per smentire quanti abbiano apprezzato, rassicurandoli che in futuro si potrà replicare, sempre se il blog (e gli ospiti) ne avranno voglia, torno alla scrittura. Sempre ancorandomi a Babylon, di cui ― avete notato? ― già nessuno parla più. Quindi anche noi lo faremo indirettamente. Ricordate quando abbiamo detto che la figura di Brad Pitt, Jack Conrad nel film, è ricalcata sul divo del muto John Gilbert? Ecco, oggi, molto semplicemente, (dis)Sequenze vi racconta la sua storia. Così, al volo, se avrete la pazienza. Eccola.

Come al solito, fatemi sapere. E’ importante. E non siate timidi, fatelo sapere anche al blog, magari scrivendolo nei commenti.

John Gilbert, la carne e il demone

Prima di raggiungere il successo con La grande parata di King Vidor, John Gilbert aveva partecipato a vario titolo già a settantacinque film. Senza lasciare alcuna traccia.

La sua presenza era a volte fugace, altre volte insipida, altre ancora tollerata. Solo pochi mesi prima de La grande parata, Irving Thalberg, l’uomo che tutto poteva alla Metro-Goldwyn-Mayer, aveva imposto al bizzoso Erich Von Stroheim Gilbert come protagonista del suo La vedova allegra. A Von Stroheim l’idea non piaceva, ma da uomo di classe qual era, abbozzò. Tuttavia voleva che le cose fossero chiare e per questo andò da Gilbert e gli disse con tutta la sincerità di cui quasi mai Hollywood era capace che il suo nome gli era stato imposto dall’alto senza che lui potesse farci niente. Stroheim di fatto aveva acceso una miccia; l’esplosione sarebbe avvenuta, restava soltanto da stabilire quando. Al primo conflitto sul set, Gilbert piantò tutto urlando e strappandosi di dosso la grande uniforme che gli serviva per interpretare il principe Danilo Petrovich. Si rintanò nel camerino, furioso e pronto a lasciare il film, sorprendendosi molto quando Stroheim lo raggiunse, gli chiese scusa e gli propose un brindisi. A cui ne seguirono altri e poi altri. Era l’inizio di un rapporto di amicizia e anche il metro con cui Gilbert costruiva i suoi rapporti, mostrando una propensione al susseguirsi di brindisi che fu la causa di una fine quasi annunciata.

La vedova allegra lo rese riconoscibile al grande pubblico, che cominciava ad attenderlo, ad acclamarlo, a chiedergli autografi. La grande parata lo trasformò in un idolo. Lui incarnava l’uomo di classe, forte e vulnerabile insieme, baffi sottili e sguardo profondo; Rodolfo Valentino era l’efebico ammaliatore, lineamenti serafici e occhi fatali. L’anno dopo, malauguratamente, Valentino sarebbe morto: Gilbert avrebbe potuto avere il futuro tutto per sé.

La grande parata

La grande parata rappresentò il suo culmine artistico, per sua stessa ammissione. La parabola del giovane rampollo di un industriale americano, partito con entusiasmo per la guerra in Europa insieme a due compagni inseparabili e tornato da solo, privo di una gamba, oltretutto oltraggiato dalla promessa sposa che s’era consolata in sua assenza con il fratello maggiore, aprì i cuori del pubblico americano. Il successo fu immenso, la soddisfazione di Gilbert smisurata. «Tutto quello che verrà dopo non sarà niente», ammise all’apice dell’entusiasmo. La MGM gli corrispose quarantamila dollari al mese come emblema del nuovo status raggiunto.

Ciò che seguì, tuttavia, avrebbe potuto essere una conferma e accompagnarlo lungo i sentieri del consolidamento del successo e invece fu la prima fase dell’inizio della sua fine.

Hollywood ha sempre amato il gossip. È il sale del divismo. Lo alimenta e trae giovamento dalle conseguenza di un’eco che si ingigantisce come un’onda. È lo specchio in cui si riflettono i sogni irrealizzabili del pubblico. È la pubblicità di cui si nutre un film per diventare evento ancor prima di poterne assaporare la qualità espressiva delle sue immagini. È un tutto che molto spesso nasce da un niente, da un semplice refolo di vento.

Sul set di La carne e il diavolo di Clarence Brown, di cui Gilbert era il nome maschile sulla locandina, comparve con le fattezze di un miraggio dai toni soffusi come la fotografia complice di William Daniels “la divina”. Greta Garbo, scritturata per il film dalla Metro-Goldwyn-Mayer, da sempre perfettamente coerente con il suo motto «Più stelle che in cielo». Qui la realtà si sovrappose alla finzione e la sovrastò in una verità che si sarebbe tramutata, una volta tanto, in fiaba. Fino a quando la fiaba non divenne nera e diede inizio a un incubo.

La carne e il diavolo

Gilbert e la Garbo non furono preventivamente presentati: la diva arrivò sul set pronta a girare quando qualche scena del film era già stata approntata. Gilbert vide per la prima volta la Garbo nella scena della stazione, mentre il suo personaggio del barone Leo von Harden scende dal treno, tornato a casa in licenza insieme all’amico di sempre Ulrich von Eltz. Per una volta non ci fu alcun bisogno di alimentare ad arte il gossip: il colpo di fulmine fu istantaneo e si sovrappose al film confondendone i confini. Mentre Leo von Harden/Gilbert teneva scherzosamente tra le braccia la giovane sorella di Ulrich, bimba ora cresciuta, da sempre innamorata di lui, la sua stretta si allentava e il suo sguardo si allontanava verso un punto imprecisato. Dal treno era scesa Felicitas/Garbo, vista in tutta la sua figura con un completino scuro, orlato da un nastro più chiaro e una cuffia a contornarle la testa. La reazione di Leo/Gilbert fu uno sguardo inebetito, stordito da tanta bellezza, la bocca semiaperta: in quel momento non esisteva altro che quello che aveva visto. Ciò che voleva avere, quella che ragazza dai lineamenti levigati, esaltati da un mazzo di fiori candidi tra le braccia, mentre ascoltava le indicazioni nervose dei facchini. Un istante breve ma particolarmente ipnotico: lo sguardo di Gilbert segue la Garbo che si avvia verso una carrozza, lei oggetto di brama e meraviglia, lui perno dell’immagine che detta il movimento della cinepresa.

Gli sguardi languidi dei due protagonisti e i sospiri dei divi mentre posavano insieme si sovrapposero: per una volta non fu necessario inventare una storia d’amore per attirare le attenzioni sulla pellicola in lavorazione. Quando la Garbo faceva capolino sul set, Gilbert si impietriva. Smetteva di parlare con chiunque, sgranava gli occhi e fluttuava verso di lei. Dal canto suo, lei non sembrava da meno, sebbene le sue reazioni fossero declinate sul suo carattere capriccioso e infantile.

Le scene d’amore abbondavano di un grado di realismo a tratti eccessivo, al punto che Clarence Brown e la troupe dovettero intervenire per porre fine a un ciak che tendeva a continuare ben oltre il termine della ripresa.

Sanguigno e impulsivo com’era, Gilbert voleva mettere un sigillo alla sua malattia d’amore e le chiese di sposarlo. La Garbo, libera e sbarazzina, accettò immediatamente.

Anche King Vidor doveva sposarsi e l’idea fu di organizzare un’altra grande parata, questa volta dall’odore di fiori d’arancio, non più di sangue e polvere da sparo.

Ma il giorno delle nozze, l’8 settembre del 1926, mentre stava arrivando Eleanor Boardman, la sposa di Vidor, John Gilbert, in completo grigio con cravatta nera, era sempre più nervoso, perché la sua, di sposa, invece non si vedeva.

La Garbo non si presentò e Gilbert fu preso dalla disperazione.

Mentre piangeva affranto nella toilette, lo avvicinò Louis B. Mayer, ovviamente invitato alle doppie nozze rivelatesi poi singole e gli posò amichevolmente una mano sulla spalle cercando di consolarlo, chiedendogli quale fosse l’esigenza di sposare quella donna volubile che lo aveva fatto attendere invano.

«Why don’t you just fuck her and forget about it?», gli disse infine, perché non te la sei scopata e poi dimenticata?, quasi a chiosare degnamente quel momento intimo, brutalmente tutto maschile. Gilbert lo guardò, stupito. Poi la rabbia prese il sopravvento. Fu un attimo, ma un attimo che risultò decisivo per il resto dei suoi anni. Gilbert prese Mayer, che era più anziano di lui di tredici anni, lo colpì con un pugno e gli fece battere la testa in terra. Mentre si rialzava, sanguinante, Mayer, che pur era abituato a fare promesse invano, gliela giurò. Lo avrebbe distrutto, anche a costo di perdere tutti i soldi che aveva investito nel suo personaggio. C’era da credergli.

Da un lato, Gilbert cercò di superare il trauma patito dalla Garbo. Nel 1929 sposò Ina Claire, una mediocre attrice che incrociò la sua breve parabola artistica con la Garbo nel 1939 per Ninotchka, anche se la Garbo era la diva del film e la Claire una qualunque comprimaria. Così come lo fu nella vita di Gilbert, che la sposò per scacciare il chiodo, perché il suo pensiero era sempre rivolto alla “Divina”. Che era tornata, con i suoi tempi. Non per sposarsi ma per essergli amica per il resto della vita.

Dall’altro versante, Gilbert credette di riuscire a sottrarsi alla minaccia di Mayer firmando nel 1928 un contratto faraonico e ottenendo che la supervisione dei film da lui interpretati fosse un’esclusiva di Thalberg. Pensava in questo modo di aver tagliato fuori Mayer dalla sua vita, ma non fece altro che accrescere l’astio di Mayer nei suoi confronti.

Intanto il sonoro nel cinema era diventato una stupefacente realtà. Al Jolson ne Il cantante di jazz si era rivolto al pubblico delle sale dopo un numero musicale avvertendolo entusiasta: «you ain’t heard nothin’ yet», non avete ancora sentito niente. Era il 6 ottobre 1927. Al prodigio brevettato dalla Warner si accodarono anche le altre case di produzione. Anche la MGM, ovviamente. Nel contratto faraonico di Gilbert tuttavia c’era un buco nero: non era stato provato il timbro della sua voce. O perlomeno, questo è ciò di cui si favoleggiò successivamente.

Ladro d’amore

Sulla base di questa favola si distrusse una carriera. Dopo alcune prove non particolarmente rivelatrici, il suo primo film sonoro, Ladro d’amore, segnò l’inizio di una fine già iniziata in quella toilette al ricevimento nuziale del solo Vidor. Voce stridula, sdolcinata, si disse. Inadatta al nuovo corso del cinema hollywoodiano. In realtà la voce di Gilbert era bassa, particolarmente calda, quasi avvolgente, tutto il contrario degli acuti che gli si imputavano. La leggenda recitava che fosse stato Mayer a far modificare da tecnici del suono a lui fedeli la modulazione della voce su pellicola per completare la sua vendetta, ma negli anni seguenti alcuni periti sconfessarono questa tesi, poiché non si sarebbe potuto attentare a Gilbert senza minare anche l’espressività degli altri attori.

Probabilmente Gilbert pagò la pochezza della sceneggiatura e l’insipienza della regia di Lionel Barrymore, certamente più a suo agio come attore che come creatore di atmosfere sentimentali complici e stuzzicanti. Indipendentemente dalla voce, inquadrati in un piano ravvicinato per esaltare il prodigio dei labiali animati in un suono articolato, tesi nello sforzo per non deludere l’obiettivo della macchina da presa e la curiosità del pubblico, molti attori sarebbero risultati artificiosi e quindi ridicoli.

La grande mancanza di Gilbert fu questa. E anche un’altra, ma che non dipendeva da lui. Gli anni del muto, i grandi successi, lo avevano reso un’icona. Bastavano un sopracciglio inarcato, un occhio spalancato, uno sguardo languido per introdurre una situazione. Non c’era bisogno d’altro. La parola, in Gilbert, come in altri, era avvertita come estranea, aliena rispetto al suo personaggio. Toglieva, invece di aggiungere.

Nonostante non fosse piaciuto al grande pubblico e sperando in un riscatto, Gilbert si presentava ogni giorno nei teatri di posa e lo fece sempre, anche quando il lavoro per lui cominciò a diminuire sensibilmente perché la sua stella si era ormai offuscata. Il crollo di Wall Street non permetteva alle case di produzione di assumersi alcun rischio e ora Gilbert, ex divo di un tempo recente ma invecchiato troppo in fretta, era un rischio.

Per lui solo film dalle limitate pretese, fatti con pochi soldi, puntellati da sceneggiature scadenti e diretti da registi di secondo piano. Su incarico di Louis B. Mayer, che puntava alla rescissione del contratto, Gilbert fu vittima di mobbing, anche se ancora il termine non era stato coniato: poteva capitare che un regista alle prime armi lo trattasse con sussiego, dimenticando volutamente i fasti de La grande parata o de La carne e il diavolo, oppure che l’usciere non lo facesse entrare al cancello degli Studios, fingendo di non riconoscerlo. Gilbert resisteva stoicamente, per preservare il suo contratto da un milione e mezzo di dollari, e perché era meglio l’umiliazione che la cancellazione definitiva.

Gli venne in soccorso la Garbo, che lo volle con sé per recitare ne La regina Cristina, preferendolo a Laurence Olivier, preteso invece dalla produzione. Una sceneggiatura compiuta e una regia di sicuro mestiere furono l’illusione di un breve istante, perché era il 1933 ed erano passati troppi anni dal successo di un tempo. Il gusto era mutato e il pubblico aveva dimenticato. Per Gilbert non c’era più spazio.

Un passo ancora, l’ultimo, il suo canto del cigno, anche se la voce di quello stesso canto era considerata unanimemente sgradevole. In The Captain Hates the Sea di Lewis Milestone interpretò uno scrittore allo sbando con problemi di alcool. Ancora una volta la finzione si legava alla realtà, superandola.

La sua vita finì così, con un’immersione nei liquori, tornati legali da pochi anni dopo la lunga fase del Proibizionismo.

Lo scopo era di dimenticare l’ostracismo di Mayer, l’amore non totalmente corrisposto della Garbo, i due matrimoni seguiti e naufragati in poco tempo, l’umiliazione di non essere più riconosciuto come il divo che era stato, la carriera fallita in un tempo che non era più il suo.

Lo trovarono in mezzo alle bottiglie vuote una mattina di gennaio del 1936. Il coroner certificò per attacco cardiaco, in realtà era morto per la consunzione della sua fama. Aveva solo 38 anni ed era stato un divo praticamente soltanto per due.

E poco importa che qualche ombra della sua parabola è servita, recentemente, per costruire il personaggio di George Valentin in The Artist di Michel Hazanavicius o per ispirare il Jack Conrad di Brad Pitt in Babylon di Damien Chazelle.

Non si tratta di un riconoscimento postumo, quanto dell’idealizzazione di un fallimento.

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema pur essendo cosciente dell'inutilità.